Grinderman
Grinderman 2
You think your great big husband will protect you, you are wrong/ You think your little wife will protect you, you are wrong/ You think your children will protect you, you are wrong/ You think your government will protect you, you are wrong (“Heathen Child”).
È tornato Nick il duro. L’altra faccia del fine dicitore di mezz’età. Il Goodfella, la metà oscura, il re inchiostro che reclama lo scettro di quel rock alternativo e rumoroso, inquinato di apocalypse-blues e post-punk, che lui stesso, insieme ad altri nomi che sono ormai da tempo passati alla storia della musica, aveva contribuito a forgiare quasi trent’anni fa. Prima della sua metamorfosi in crooner del male (di vivere e di morire), in murder ballader, aspirante scrittore, attore di se stesso, sceneggiatore e chi più ne ha più ne metta. He’s a man, he’s a ghost, he’s a guru. E invece no, è sempre lui, con gli amici di una vita (Warren Ellis, Jim Sclavonus, Martyn P. Casey: i Grinderman, ovvero una versione più cazzuta e spaccona dei Bad Seeds). Lui che ha sconfitto i suoi demoni ed ora può permettersi il lusso di richiamarli sul palco, e farli saltare - spaventosi ma innocui - in un cerchio fuoco per il tanto atteso bis.
Grinderman 2 è un disco che sembra destinato a protrarre la diatriba fra chi lo preferisce in versione chansonnier e chi in quella “uomo lupo australiano a Londra”. Accentuando l’indifferenza di coloro che credono che ormai non abbia più niente da dire. Il che è rispettabile ma ingeneroso perché, l’abbiamo ripetuto più volte su queste pagine, la classe non è acqua: lui è ancora un signor compositore, e non ha bisogno di idee lambiccate per scrivere un pezzo da leccarsi i baffoni a cui da un po’ di tempo sembra essersi morbosamente affezionato, i suoi compari è gente che suona da dio e, alla fine della fiera, repetita juvant, come dicevano i nostri avi. Ad alcuni magari rompe, ma per tutti gli altri juvant. Il nuovo capitolo, infatti, non si distacca granchè dal primo per generi musicali e scelte soniche se togliamo il fatto che Nick conosce un po’ meglio i trucchi del suo nuovo strumento (la chitarra) e si diverte a metterli in pratica con gran prolusione di effetti, screzi e distorsioni, che c’è qualche pezzo più lento (ma tutt’altro che distensivo), e che la produzione (sempre di Nick Launay: altro reduce, in questa veste, di Birthday Party e Bad Seeds) è un po’ più rifinita, meno volutamente grezza e in “presa diretta” dell’originale.
E le canzoni tengono comunque alto il nome del quartetto: l’opener Mickey Mouse And The Goodbye Man (un titolo del genere poteva venire in mente solo a lui) riesuma assalti alla diligenza in stile Gun Club (stop’n’go, chitarre sporche e gracchianti, recitato alla Jeffrey Lee o semplicemente alla Nick) grazie ad una ritrovata ferocia che esplode poi raschiando brandelli di blues fra i solchi di Evil, didascalica ma tremendamente efficace, un blues che diventa quasi doomy macerandosi nelle chitarre liquide e sulfuree di Kitchenette per diluirsi, più soffuso e lamentoso, in Bellringer Blues. Su tutte spicca, comunque, l’ispirata e venefica Heathen Child: pozione groovy e claustrofobica, distorsione da stati alterati della coscienza, cadenza quasi pow wow, per una sorta di poemetto mansoniano sul lento suicidio culturale dei figli dei figli dei figli dei fiori. Anche Worm Tamer mostra interferenze sixties ma mitiga il fuzz con una dose accettabile di controcanti soul. Oltre a gonfiare i muscoli, però, Nick e i suoi sgherri sanno anche fare a meno dell’elettricità, o quasi, per tratteggiare ad occhi chiusi due ballad o presunte tali: Palaces Of Montezuma senescente e dylaniana e What I Know singhiozzante nenia hobo incisa su un disincarnato fondale vetroso e rumorista.
Bello tetro, tosto e compatto. Senza sbavature. Questo viagra Grinderman, a quanto pare, funziona. Cos’altro si può chiedere a uno come Nick Cave se non di suonare al meglio quello che (al momento) gli viene meglio?
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