65daysofstatic
We Were Exploding Anyway
Vi racconterò una storia. Un giorno, Ottobre, tre anni fa: vago senza meta nella rete di internet; vi rimango impigliato, catturato, imprigionato. La trappola Youtube funziona dannatamente bene, un video aperto che non mi lascia via di scampo. Rimango incollato, occhi e orecchie, a quel piccolo schermo: ricordo solo che ero in cerca di musica. Avete presente quando volete trovare un gruppo nuovo da ascoltare, da adorare, magari in un periodo di stagnamento sonoro? Bene, io avevo quelle grandiose intenzioni. Fu allora che scoprii i 65daysofstatic.
L'esca dell'amo era stata "Drove Through Ghosts To Get Here", perla, perlissima di "One Time for All Time" (2005), loro secondo album: pianoforte per gradire, batteria e drum machine per soffrire: ritmiche irregolari, picassiane, fuori da ogni tempo, dentro ogni beat possibile e inimmaginabile: l'apologia del Non-Metronomo. Davvero, un'esperienza che ognuno di voi dovrebbe provare. Il tempo di un click e mi ringrazierete.
Per i più assetati di etichette, il gioco si fa difficile: post-rock? Elettronica? Drum 'n bass? Math-rock? Tribal? Noise? Tutto. E di più. I 65daysofstatic sono degli sciamani: quei quattro di Sheffield hanno la musica nel sangue. Un senso ritmico come il loro è (quasi) impossibile da scovare. I battiti del loro cuore musicale sono in grado di prenderci, di farci scatenare in un'enorme danza tribale, in una ballata mistica dell'anima nostra che si estrania dal corpo per essere stuprata dentro un flusso continuo di corpi caldi che si muovono scossi da istinti primordiali: un misto di dolore e profonda goduria. Poco importa se gli do il nome di pogo, sminuirebbe solo il concetto.
Chiunque sia andato a un loro concerto sa di cosa sto parlando, e vi posso assicurare che un'esperienza del genere vi colpirà nel profondo. Così come il disco: "Stavamo esplodendo lo stesso", vero quant'è vero che è vero. Tocca a "Mountainhead" e "Crash Tactics" dare inizio allo spettacolo. Le percussioni sono la costante, la chiave di volta dell'intero album: non solo batteria, anche drum machine o semplici tom usati separatamente dalla batteria (vedere live per credere). Ai controtempi delle percussioni rispondono i sintetizzatori con i loro suoni quasi ai limiti della techno, chitarre elettriche e basso. Molto vicini ad Aphex Twin, i beat si fanno sempre più elettronici e veloci, per non dire addirittura acidi. Sembra di stare a bordo di una vettura futuristica che viaggia a velocità indicibili. Non a caso, si sentono gli echi lontani di un sound à la Orbital e Chemical Brothers. Quelli di voi che hanno mai giocato a Wipeout 3 (era ps1) possono comprendermi perfettamente.
Come possono quattro musicisti suonare tutto quel popò di roba? Semplice, si intercambiano reciprocamente. Il bassista, Simon Wright, oltre che suonare il basso, si occupa pure di uno dei due synth, di un tom isolato e, occasionalmente, anche della drum machine; il batterista, Rob Jones, in alcuni pezzi si concentra anche lui su un solo tom, in quella che sembra una vera e propria fustigazione punitoria; il chitarrista, Paul Wolinski, si dedica incessantemente alla chitarra elettrica, al sintetizzatore (lui più di tutti) e a un altro tom, anche questo separato appositamente dalla batteria; l'altro chitarrista, Joe Shrewsbury, passa senza batter ciglio dalla chitarra elettrica alla drum machine (non quella del bassista, la sua personale!).
"Dance Dance Dance" è un esempio limpidissimo del sound ritmico tipico dei 65daysofstatic, anche se per certi versi ridondante: percussioni marziali e inserimenti elettronici dei sintetizzatori vengono usati principalmente come corridoio ascensionale per la batteria e le chitarre. "Piano Fights" è il brano più melodico dell'intera opera, e si rivela ben presto anche quello che più di tutti gli altri "sa di già sentito", una sorta di minestrina riscaldata in salsa God is An Astronaut: post-rock docet. Andando avanti nell'ascolto, veniamo elettrizzati da "Weak4": assalti continui delle percussioni e risposte elettro-rock di chitarre e sintetizzatori. Un botta e risposta di pregevole fattura, soprattutto grazie all'innato senso del ritmo, tipico della band inglese. Quello che colpisce è, infatti, la loro immensa abilità nel costruire ritmiche complesse che, pur se alle volte ripetitive, coinvolgono quasi sempre l'ascoltatore; d'altraparte, l'avevano già ampiamente dimostrato negli altri album, "One Time for All Time" e "The Fall of Math" su tutti. Le differenze con gli altri (capo)lavori sono invece riscontrabili nel diverso uso degli strumenti: in "We Were Exploding Anyway", infatti, le chitarre elettriche vengono messe un po' da parte per fare sempre più spazio all'uso della drum machine e dei suoni elettronici; tuttavia, synth e batteria rimangono come filo conduttore con i precedenti album.
Poi, la la sfumatura minimalista: "Come to Me". Ritmi ancora una volta post-rock, filtrati dagli "ormai noti" climax strumentali, ai quali questa volta si aggiunge la voce di Joe Shrewsbury che ripete, come in loop, "Close your eyes". La voce, vera piccola novità dell'album, viene poi progressivamente modificata in maniera artificiale fino a raggiungere gradi e timbriche para-robotiche. Chiude il tutto la preannunciata "sfuriata" post-rockiana sugli accordi delle chitarre, i colpi secchi della batteria e, proprio sul finire, sui tocchi leggeri del synth, qui usato come cassa di risonanza in continuo riverbero.
Con "Go Complex" i toni si rifanno simil techno, questa volta supportati egregiamente dalle chitarre elettriche e dalla batteria. E' sicuramente il pezzo più in linea con i loro precedenti lavori, più simile alle sonorità dei primissimi 65daysofstatic. Superata la scialba "Debutante", quasi interamente pervasa da cori angelici (in contraltare al corpo strumentale), sopraggiunge "Tiger Girl", ultima traccia del disco. In questo caso, il tempo è scandito per la prima metà da un ritmo pseudo-caraibico, fino a liberare una gigante Explosion(s) In The Sky dalle amabili abitudini dopo-rock.
Cosa rimane, dunque, ora? Delusione? Gioia immensa? Sì e no; no e sì. Dipende tutto dal vostro approccio all'album: se non amate per niente i suoni elettronici e siete alla ricerca di un qualcosa di più duro, vi conviene allora dare una chance (ma anche due, tre, quattro...) al loro "One Time for All Time", distante ormai cinque anni. Ecco, se questo è il vostro primo album dei 65daysofstatic, forse la soluzione più giusta sarebbe recuperare i loro "vecchi" dischi e usarli come metro di paragone per quest'ultimo così da vedere quale più si avvicina alle vostre preferenze.
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