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R Recensione

6/10

Collapse Under the Empire

Shoulders & Giants

Talvolta è difficile contrastare la malia che certe sonorità esercitano nell'animo di chi ne è affascinato. Purtroppo, in certe circostanze, è necessario tentare una controffensiva e ridimensionare l'impatto che dalle emozioni possono scaturire. E così, sebbene le cristalline sinfonie dei Collapse Under The Empire (da Amburgo), risultino così perfettamente costruite per fare breccia in qualsiasi appassionato di post-rock (e non solo), levigate come sono da synth evanescenti, increspate da chitarre poderose, inquietate da una elettronica di circostanza, sobbalzate da una batteria a tratti voluttuosa, è giocoforza consigliare  all'ascoltatore già incline ad esaltarsi un po' di sana di distanza. E già, perché gli olocausti tributati ai piedi di altri altari (fra questi quelli dedicati a God Is An Astronaut, 65daysofstatic, Maserati, Russian Circles, Mogwai era "Rock Action") sono davvero abbondanti. Insomma calarsi nelle atmosfere dei Collapse Under The Empire ha troppo il sapore di quel post-rock tecnologico, rigorosamente strumentale con rimandi al synth-progressive dei Rush anni '80 (ma anche alla miscela elaborata dai The Gathering della seconda metà degli anni '90), nei confronti del quale anche le band citate, eccezion fatta per i Mogwai, sono debitrici.

Purtroppo o per fortuna i Collapse Under The Empire sanno come prendere d'assedio, assestando con enfasi colpi di grande maestria: dall'iniziale sequenza di Shoulders / Giants, al cuore palpitante di The Sky's The Limit e giù in fondo al fremito di After The Thaw. Sembra quasi che Chris Burda e Martin Grimm (e già non lo si direbbe, visto l'armamentario, ma di un duo si tratta), abbia passato anni a studiare il "nemico", analizzandone ogni mossa, ogni dinamica, ogni particolare, elaborando una strategia di attacco in grado di non lasciare scampo. Questo "Shoulders & Giants", terzo lavoro della formazione, pare una tesi di dottorato in tattica post-rock. Sembra un quadro di un preraffaelita, che pur cercando di opporsi all'accademicità inseguendo una ispirazione ancora più antica e una idea di purezza più alta, rimane irretito dalla ricerca stessa e dalla tecnica usata per perseguire il fine. Una tecnica che si mantiene invariata pressoché in tutti i brani nei cui primi minuti ha luogo un balletto fra elettronica, synth e talvolta la chitarra in modalità arpeggiata, mentre invece in vista del finale, per un gioco di sospensione emozionale, entrano chitarre e batteria in gran spolvero, saturando l'atmosfera rarefatta e innescando così l'esplosione.

Nonostante siano sempre ben evidenti tutti i trucchi del mestiere usati, in tutta onestà debbo dire che non sempre sono riuscito a mantenermi immune dalla fascinazione di queste composizioni e di quest'album in generale. Tanto che, credo, continuerò a seguire il gruppo anche nel secondo capitolo che uscirà il prossimo anno e che avrà titolo "Sacrifice & Isolation" e che completerà  il concept  la cui "tematica", strano termine per un disco integralmente strumentale, è incentrato sull'esistenza umana, suoi sogni che l’accompagnano, sulla ricerca di una libertà assoluta, sulla solitudine e infine sulla morte.

Tu chiamale se vuoi, vessazioni.

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