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R Recensione

7/10

Andrea Laszlo De Simone

Immensità

Saggiare lo stato di salute del nuovo cantautorato italiano attraverso il prisma di un disco di Andrea Laszlo De Simone è un po’ come – rubo l’efficace metafora ad Andrea Moro – pretendere di desumere il numero di abitanti di una metropoli a partire dal numero di persone che ogni giorno transitano per il suo principale spazio aeroportuale. Era già un fatto acclarato con il mastodontico “Uomo Donna” (2017), che aveva concluso in pompa magna un lungo lavoro durato anni: diventa ancora più evidente con il nuovo concept breve di “Immensità”, quattro capitoli in formato singolo (come tali ascoltabili anche separatamente da tutto il resto) raccolti in una teatrale confezione primo deandreiana che prevede la presenza di prologo, tre interludi e conclusione. Disco di un tempo che è fuori dal tempo: sembra paradosso ma non è.

Sebbene non si possa pensare De Simone disgiunto dalla band di preparatissimi musicisti che ne traduce in note le intuizioni liriche, è anche vero che in “Immensità”, ancor più che in “Uomo Donna”, il confine tra parole e musica si fa labile, si erode in un flusso da suite in cui, tra le pieghe di arrangiamenti al solito piuttosto sofisticati (si potrebbero citare, a mo’ di paragone dozzinale e in ordine del tutto casuale, il Battisti di metà anni ’70, la fase prog del primo Sorrenti e persino certo Rocchi), si affollano le vampe di haiku immaginifici, frammenti di astratto descrittivismo che pareggiano naïveté e profondità. È questo, ad esempio, il caso di “Mistero” (introdotta dal decollo di synth galattici del secondo intermezzo “Lo Spazio”), dove il drammatico avanzare a schiera degli archi sostiene, a mo’ di vestito d’autore per un brano di musica leggera degli anni ’60, un testo di criptico ermetismo tenuto sullo sfondo, solo sussurrato (“Mistero / Riaccendi la luce / Chi c’era lì nella tua voce? / Bagliore / Produci un respiro / È come una trappola al cuore / E intanto scioglievi nel corpo / Dolcezza negata”). Altrettanto potente è “Conchiglie” (preceduta, questa volta, dalle bucoliche visioni dell’interludio “Il Tempo”), che su un classico arpeggio folk a battuta continua tratteggia una visione quasi battiatiana dell’esistenza (“Ti sei un po’ spaventato, proprio come pensavo / Vedrai, non serve a niente rintanarti in te stesso / Siamo solo conchiglie sparse sulla sabbia / Niente potrà tornare a quando il mare era calmo”), un mantra sui cui bordi sciaguatta un coro di voci femminili e si increspa la marea di una tenue sinfonia per soli violini. Prima che l’armonia declini e vada alla deriva, irrompono i tamburi e gli ottoni di una “Conclusione” da peplum, che fa scorrere i definitivi titoli di coda.

La vita è un piano inclinato / e il domani scivola via”, canta De Simone in uno degli episodi più fortunati di “Immensità”, “La Realtà”, antipasto di una “La Nostra Fine” che ricorda da vicino alcuni recenti episodi dei Verdena “battistiani” (analogia non casuale, dato che, come Alberto Ferrari, anche Laszlo sceglie le parole da adattare alla musica sulla base di criteri fonosimbolici). Piccole grandi verità di un piccolo grande disco.

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