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R Recensione

6,5/10

Colombre

Corallo

È nel mentre diventato professore di lettere, Giovanni Imparato da Senigallia, il più buzzatiano e trasognato degli esponenti di quello che – con la solita approssimazione generalizzante della critica contemporanea – è stato definito nuovo cantautorato italiano. Quanto poi questo cantautorato sia “nuovo” e “nuovo” esattamente rispetto a che cosa, in verità, non si è mai capito del tutto, specialmente da quando si è messa di traverso la resurrezione dell’it-pop e le barriere morali e stilistiche tra indie e mainstream si sono disintegrate. Difatti “Corallo”, secondo disco solista per Colombre a distanza di tre anni dal celebrato e pluripremiato “Pulviscolo”, pur non avendo fortunatamente nulla da spartire con le genie dei Paradiso e dei Calcutta (se non il formato da Bomba Dischi: platter asciuttissimo, otto brani per appena ventisei minuti di durata), tanto nuovo in fondo non è: nei suoni, nelle soluzioni, nelle immagini liriche, nel dare e scorgere vita all’incrocio tra slackerwriting a stelle e strisce e tradizione mediterranea (oltre Giorgio Poi? Si trattasse dell’ultimo, certamente).

Intendiamoci: non solo della novità in sé e di per sé uno non se ne fa niente, ma il talento del musicista e paroliere Colombre non può essere messo in discussione, tanto più che in “Corallo” il parterre degli amici strumentisti coinvolti per starpower supera di molto quello di “Pulviscolo” (tra i nomi ricorrenti spiccano Fabio Grande de I Quartieri, Fabio Rondanini di Calibro 35 e Afterhours, Fausto Cigarini dei Reverie e il tuttofare Pietro Paroletti). E però, se l’autorità è professorale (nel senso, si comprende, non deteriore del termine), i risultati che ne derivano sono afflitti dalla medesima discontinuità strutturale che smorzava la godibilità dell’esordio. Allora, ad una prima metà di caratura stellare, se ne opponeva una seconda di molto inferiore, in un netto ed insanabile contrasto manicheo. Tre anni più tardi la divisione rimane sostanziale, anche se le sue manifestazioni sono più sfumate: non si ragiona più per blocchi polarizzati di brani quanto, piuttosto, per alternanze regolari di splendide gemme e pezzi non esattamente ineccepibili. Assolutamente esemplificativo è il binomio centrale “Crudele” – “Per Un Secondo”: ariosa e malinconica ballata la prima, impreziosita da un sofisticato arrangiamento per mellotron e chitarra twang che sfocia in un magnifico ritornello orchestrale (“Amore mio / So di aver sbagliato / Non dirmi addio / Lo so che sono stato insensibile / Crudele, certamente inutile / Parlarti da qui”); stucchevole pantomima tra Gaetano e Sorrenti la seconda, compressa fra chitarre fuzz e saltabeccanti piano honky tonk. Basta scorrere la scaletta per rendersi conto che non si tratti di un caso isolato: se il passo felpato di “Non Ti Prendo La Mano” rivisita con successo i melodismi del Battisti primo-settantiano all’ombra delle sbilenche e sonnolente chitarre di Mac DeMarco, “Terrore” tenta la carta di un funky-soul striato da synth disco senza centrare il bersaglio. Ancora, le profondità amniotiche di una “Arcobaleno”, combattute tra archi sanremesi e stratificazioni quasi radioheadiane, evaporano nella prescindibile pompa spectoriana retro-gospel di “Anche Tu Cambierai”.

In un solo caso, secondo il sindacabile parere di chi scrive, si raggiunge quel bilanciamento di forma e sostanza la cui perenne oscillazione destabilizza le fondamenta del disco: “Mille E Una Notte” è un pezzo intimo, oscuro, avviluppato da un emozionante arrangiamento corale in crescendo che incrocia Moltheni e Morricone. E se fosse tutto qui, il segreto dell’equilibrio? Bravo prof, ma in futuro ci aspettiamo ancora di meglio.

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