Scientist
Barbelith
Oggi che il metal non lo ascolta più nessuno o, per essere più precisi, che nessuno sbandiera più ai quattro venti di ascoltarlo quasi ce lo si dimentica. Eppure, se nel mondo iperveloce ed interconnesso doggi il concetto di supergruppo è stato sdoganato al punto tale da aver perso ogni residua alterità (e questo, senza dubbio alcuno, è un vulnus), è anche grazie alla genia metallica senza macchia né paura degli anni 90 e primi Duemila, a quei pionieri e sperimentatori della distorsione che sempre cercavano di spostare un po più ad ovest la frontiera dellin(a)udito, dello sconosciuto. I riflettori mediatici si sono spenti da tempo, e con loro gran parte delleffimero interesse degli ascoltatori casuali, ma la tensione alla collaborazione e allibridazione rimane una costante specifica del movimento si pensi allaffastellarsi maniacale di progetti di un Aaron Turner, di un Bret Hinds, di un Toby Driver. Ennesimo esempio, nemmeno così eclatante, quello degli Scientist, sorta di estensione naturale di una serie di band con base di Chicago e dintorni (Taken By The Sun, Making Ghosts, Boatmans Toll e i più conosciuti Yakuza, di cui il chitarrista Eric Plonka è stato membro fisso sino allo straordinario Way Of The Dead del 2002), arrivati con il Barbelith in questione al terzo full length in cinque anni.
Cambiano nomi, generi e latitudini, ma la ricetta, in definitiva, rimane sempre la stessa: un concept fantascientifico trainante (qui la serie a fumetti The Invisibles di Grant Morrison), un raggio dazione che abbraccia quanto di meglio lunderground extreme abbia prodotto e continui a produrre negli ultimi decenni (in ordine e percentuali variabili: death, doom, sludge, black, post, prog, avant), una serie di dischi che a forza di fare dellimprevedibilità e del crossover il loro punto di forza tendono ormai a somigliarsi un po tutti. Barbelith non fa certo eccezione, anzi: nello snodarsi del riff chitarristico portante di Chokhmah/Binah si risentono i Mastodon di Remission (ma con quella leggera patina sudista à la Light Pupil Dilate e un uso dei breakdown non lontano da certo metalcore), nel poderoso ruggire acido dei tiranti di Retrograde si rispecchiano le postreme derive melodiche del math-core storico, nellheavy-thrash progressivo di /(Home)/At Last appaiono i fantasmi di Voïvod e High On Fire. Poi vi sono le strizzate docchio al limite del plagio: assolutamente spudorato il refrain della title track, una perfetta mimesi del Maynard formato A Perfect Circle che si fa strada tra i flutti di unodissea post-core dultima generazione, per non citare le derive minskiane che mitigano la furia belluina di Shed This Meat. In tutto questo copia incolla, un pezzo degno di nota cè, ed è Magick Mirror: che, pur non inventandosi alcunché, dà fondo a tutto larsenale tecnico ed inventivo del gruppo, qui impegnato in complesse transizioni da afflati di jazz elettrico a tremebonde sventagliate di blast à la Portal, fino a smottamenti tooliani di sicura presa.
Brutto, lo si sarà capito, Barbelith certamente non è. Superfluo, questo sì. Quanto ad ambire di dire la propria nel magmatico dibattito critico in perenne movimento, come il macrogenere di riferimento, gli Scientist non ci provano nemmeno. Ed è un triste peccato di autoreferenzialità.
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