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R Recensione

5,5/10

Scientist

Barbelith

Oggi che il metal non lo ascolta più nessuno – o, per essere più precisi, che nessuno sbandiera più ai quattro venti di ascoltarlo – quasi ce lo si dimentica. Eppure, se nel mondo iperveloce ed interconnesso d’oggi il concetto di “supergruppo” è stato sdoganato al punto tale da aver perso ogni residua alterità (e questo, senza dubbio alcuno, è un vulnus), è anche grazie alla genia metallica senza macchia né paura degli anni ’90 e primi Duemila, a quei pionieri e sperimentatori della distorsione che sempre cercavano di spostare un po’ più ad ovest la frontiera dell’in(a)udito, dello sconosciuto. I riflettori mediatici si sono spenti da tempo, e con loro gran parte dell’effimero interesse degli ascoltatori casuali, ma la tensione alla collaborazione e all’ibridazione rimane una costante specifica del movimento – si pensi all’affastellarsi maniacale di progetti di un Aaron Turner, di un Bret Hinds, di un Toby Driver. Ennesimo esempio, nemmeno così eclatante, quello degli Scientist, sorta di estensione naturale di una serie di band con base di Chicago e dintorni (Taken By The Sun, Making Ghosts, Boatman’s Toll e i più conosciuti Yakuza, di cui il chitarrista Eric Plonka è stato membro fisso sino allo straordinario “Way Of The Dead” del 2002), arrivati con il “Barbelith” in questione al terzo full length in cinque anni.

Cambiano nomi, generi e latitudini, ma la ricetta, in definitiva, rimane sempre la stessa: un concept fantascientifico trainante (qui la serie a fumetti The Invisibles di Grant Morrison), un raggio d’azione che abbraccia quanto di meglio l’underground extreme abbia prodotto e continui a produrre negli ultimi decenni (in ordine e percentuali variabili: death, doom, sludge, black, post, prog, avant), una serie di dischi che – a forza di fare dell’imprevedibilità e del crossover il loro punto di forza – tendono ormai a somigliarsi un po’ tutti. “Barbelith” non fa certo eccezione, anzi: nello snodarsi del riff chitarristico portante di “Chokhmah/Binah” si risentono i Mastodon di “Remission” (ma con quella leggera patina sudista à la Light Pupil Dilate e un uso dei breakdown non lontano da certo metalcore), nel poderoso ruggire acido dei tiranti di “Retrograde” si rispecchiano le postreme derive melodiche del math-core storico, nell’heavy-thrash progressivo di “/(Home)/At Last” appaiono i fantasmi di Voïvod e High On Fire. Poi vi sono le strizzate d’occhio al limite del plagio: assolutamente spudorato il refrain della title track, una perfetta mimesi del Maynard formato A Perfect Circle che si fa strada tra i flutti di un’odissea post-core d’ultima generazione, per non citare le derive minskiane che mitigano la furia belluina di “Shed This Meat”. In tutto questo copia incolla, un pezzo degno di nota c’è, ed è “Magick Mirror”: che, pur non inventandosi alcunché, dà fondo a tutto l’arsenale tecnico ed inventivo del gruppo, qui impegnato in complesse transizioni da afflati di jazz elettrico a tremebonde sventagliate di blast à la Portal, fino a smottamenti tooliani di sicura presa.

Brutto, lo si sarà capito, “Barbelith” certamente non è. Superfluo, questo sì. Quanto ad ambire di dire la propria nel magmatico dibattito critico in perenne movimento, come il macrogenere di riferimento, gli Scientist non ci provano nemmeno. Ed è un triste peccato di autoreferenzialità.

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