R Recensione

7/10

John Cale

Fear

Pilastro portante dei Velvet Underground della prima ora John Cale si è dimostrato un artista fondamentale negli anni ’70 anche per i suoi lavori solisti e per le numerose collaborazioni di prestigio (Kevin Ayers e Terry Riley per fare due nomi). Eppure si fa fatica a trovare un disco-pilastro che segni in maniera irrevocabile il suo genio assoluto. I suoi album infatti risentono spesso di eccessiva eterogeneità o frammentarietà, e laddove emergono perle nitide e luccicanti troviamo al loro fianco immancabilmente riempitivi deprecabili.

Ciò dipende spesso e volentieri dal netto dualismo che caratterizza la produzione musicale di Cale: da un lato le opere più sperimentali, degno prosieguo dei discorsi velvettiani, dall’altro la volontà di operare in un pop spensierato e melodioso non sempre all’altezza. Ma la situazione è invertibile: spesso infatti le idee diventano talmente sperimentali e briose da apparire bozzetti infantili se non giochini, bilanciate invece da composizioni da chansonnier maturo ed esperto.

Fear, pur essendo una delle opere più interessanti del gallese, non riesce ad uscire da questo vicolo cieco, alternando capolavori a brani senz’altro deprecabili o quantomeno discutibili. Come Barracuda ad esempio, leggerezza pop in salsa soft-glam in bilico tra un Bowie poco ispirato e la decadenza dei Roxy Music. Molto peggio la melensa Emily, litania carica di cori sfarzosi che lungi dall’essere struggente appare piuttosto noiosa e banalotta. Imbarazzante anche la dolciastra The man who couldn’t afford the orgy, che tra coretti, spoken-word artistico-femminile e melodie insipide tenta un improbabile scioglimento degli Beach Boys in un happening di inizio ‘70s.

Ma per fortuna le note dolenti finiscono qua, perché altrove (Ship of fools, You know more than I know) l’elegia raffinata perviene a livelli di eleganza notevoli, sfiorando un bilanciamento perfetto tra musica e parole nella prima e sfoderando una ballata incisiva e classicamente impeccabile nella seconda. Un brano quest’ultimo che assieme a Buffalo ballet appare degno erede della tradizione classic-pop dei Velvet Underground, con punte di intensità emotiva avvolgenti e strappalacrime. Roba da tenere da parte per le serate romantiche con la fanciulla di turno, tanto per intenderci. Alla faccia di quell’Elton John che nello stesso periodo cominciava a spopolare.

Eppure il vero valore aggiunto del disco non sta nelle altalenanti prestazioni più o meno convenzionali e tradizionali fin qui elencate, quanto piuttosto nel pugno di brani rimasti, in grado di ritrovare per un istante bagliori di quel delicato e instabile equilibrio dei primi Velvet Underground, unendoli però al carisma e allo stile del defunto Jim Morrison. No è vero, non avete letto male, ho detto proprio Jim Morrison. Non chiedetemi perché né come ma per un attimo il re lucertola rivive nitidamente nel 1974, sceso con una settimana di permesso dal cielo (o salito dall’inferno, fate vobis) per fare una chiacchierata e suonare due cazzate con Eno, Manzanera, Cale e Fred Smith. Cale gli cede volentieri il microfono in tre brani da urlo: Fear is a man’s best friend parte come una ballata discreta e un po’ zuzzurellona nelle sue linee di piano vaudeville, poi sale d’intensità ed enuncia il motto molto ottimista del titolo cui l’autore di The End e Strange days ci ha abituato. Tenta di farlo in maniera artistica con arie intellettuali che escono dagli schemi classici del rock, ma alla fine è evidente che Morrison non riesce a restare del tutto serio e verso il finale barcolla ubriaco, sbanda contro la batteria, tutti si fermano e il pantano musicale che ne viene fuori si spegne lentamente in preda a isterie autodistruttive.

Momamma Scuba è il brano più anomalo del lotto: tra sprazzi di black music Morrison-Cale si lancia nei suoi vocalizzi da vecchio istrione arrapato mentre un Manzanera d’eccezione alla chitarra gioca a fare fare il George Clinton della situazione offrendo il necessario palinsesto funk-soul della situazione. Il risultato è che la struttura del brano è completamente anomala ma travolgente, mentre Cale pare essere arrivato alla terza bottiglia di jack daniel’s per sfornare una simile prestazione. Ma il meglio deve ancora venire. Gun si fa subito notare per la sua durata: otto minuti! Gli schemi musicali appaiono subito più consueti, tra rock, blues e psichedelia West Coast, innaffiate a dovere da quella necessaria eco di chitarre velvettiane sullo sfondo. Il brano però è Doors fino al midollo, tanto da parere uscito da album come Waiting for the sun o Morrison Hotel. Nessun dubbio ormai sul fatto che Morrison, in missione per conto del Dio-rock, si sia impossessato del corpo di Cale apprendendone peraltro le meravigliose doti solistiche, come dimostrano le chitarre sempre più caustiche, acide e psycho-noise. Intanto il ritmo resta ipnotico e medio-alto, con una batteria da metronomo che non per nulla rievoca lo spettro di Sister Ray. Una meraviglia insomma, ma la ricreazione alla fine termina e Morrison torna in cielo. Immaginiamo non prima di aver piantato un bel rutto e averci provato con le sorelle-coriste Chanter.

E Dio mi fulmini se qualcuno è in grado di spiegarmi come diavolo sia possibile sporcare un album così affascinante con composizioni così penose quali The man who couldn’t afford the orgy

V Voti

Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 4 voti.
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Cas 7/10

C Commenti

Ci sono 8 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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dario1983 alle 14:28 del 24 marzo 2009 ha scritto:

finalmente

storia della musica adesso è più ricca con un album del genere recensito.

Io lo trovo eccellente, non ai livelli delle produzioni coi velvet, ma nulla da invidiare a tanta musica anni Settanta.

dario1983 alle 14:29 del 24 marzo 2009 ha scritto:

ps. la recensione mi è piaciuta parecchio!

Lobo alle 10:25 del 26 marzo 2009 ha scritto:

Questo sì che è un grande! Altro che Lou Reed!

rael alle 10:38 del 26 marzo 2009 ha scritto:

è un grande ma questo lavoro non credo sia imperdibile_'

Totalblamblam (ha votato 7 questo disco) alle 12:30 del 28 marzo 2009 ha scritto:

mitico gallese

ah john cale cosa sarebbe il rock senza di lui? poca cosa

è un grandissimo non si discute ma fear non è a mio avviso il suo miglior lavoro (recensione molto c'entrata), gli preferisco tra i lavori più pop e meno sperimentali dei suoi music for a new society o vintage violence, fermo restando che paris 1919 è il disco barocco per antonomasia (loson tiè ghghhgh nah scherzo è un disco decadente)uno di quei dischi che ha il pregio di migliorare ad ogni ascolto, capolavoro e ho detto tutto

voto: 7.5

target alle 22:18 del 2 aprile 2009 ha scritto:

Il 10 maggio sarà a Ferrara in una serata-tributo a Nico con: Mark Lanegan, Mercury Rev, Lisa Gerrard, Peter Murphy, Soap & skin e altri. 'Sticazzi.

Cas (ha votato 7 questo disco) alle 12:32 del 13 giugno 2009 ha scritto:

bellino, ma manca tutta la drammaticità di Paris 1919...Insomma, buono il 7!