R Recensione

6/10

Lemonheads

Varshons

Ok i Lemonheads sono sempre i Lemonheads e Evan Dando è uno cui si dà sempre un’opportunità perché in fondo chi di noi non ama almeno un po’ quel power-pop un po’ punkettone di dischi storici come Creator e It’s a shame about ray? Ovvio che i tempi sono cambiati, Dando è invecchiato e come è scontato che sia si è gettato nella tradizione americana innamorandosi del country. Mossa più o meno genuina e naturale che lo aiuta a darsi quelle arie da artista piacione per il grande pubblico, magari cantautore raffinato buono non più solo per ragazzini brufolosi e un po’ sfigati ma anche per vecchiette un po’ rincoglionite e nonni reduci dal fronte woodstockiano sulla via della redenzione.

Varshons, è bene dirlo subito, è un album decisamente piacione e paraculo, nel senso che un disco di cover che arriva in un momento di decadenza creativa pluridecennale non può essere altro se non un modo per restare sul mercato, adempiere ai propri doveri contrattuali e raggranellare due soldini. Il modo più semplice per avere successo e rimanere visibile è in effetti quello di fregare alcuni pezzi dagli altri, rielaborarli un po’ e portarli al successo. Ecco quindi Varshons, album di cover che supera di poco la mezzora. Un disco sostanzialmente inutile insomma. Eppure piacevole. Accademico eppure raffinato.

E per quanto sia desolante questa vecchiezza che Dando si porta ormai dentro in ogni sussurro e strepito, bisogna ammettere che la stoffa ce l’ha, e ha imparato bene come svolgere il mestiere di pensionato musicale di lusso. Esemplare in tal senso la trasformazione di Beautiful, hit mondiale di Cristina Aguilera qui spogliata di ogni orpello e virtuosismo vocale per essere ricondotta ad una dimensione folk ascetica stupefacente nella sua semplicità. Tutto il contrario di Hey, That's No Way To Say Goodbye, gioiellino di Leonard Cohen cui non viene aggiunto nulla se non il dolce mormorio di Liv Tyler, una delle due ospiti di lusso assieme a Kate Moss. Questa compare nell’elettro-pop sintetico di Dirty Robot in cui di fatto sembra di risentire le collaborazioni della modella con i Primal Scream, cosa nient’affatto negativa ma che in effetti stona un po’ con lo spirito complessivo del disco, tutto improntato ad una dimensione seria, cantautoriale e un tantino cupa.

Con risultati talvolta strepitosi, come nella sublime Mexico (originariamente dei misconosciuti Fuckemos), fascinoso incontro tra Grant Lee Buffalo e Dirty Three, o in Green fuz, sfrenato garage libertario di Randy Alvey & Green Fuz qui ricondotto ad una ballata folk darkeggiante e low-fi davvero suggestiva. Il tono basso e tradizionalista che permea altri brani non riesce invece a convincere del tutto, offrendo versioni scialbe o scontate (I just can’t take it anymore di Gram Parsons, Waiting around to die di Townes Van Zandt) o incapaci di mantenere intatta la rabbiosa potenza subliminale insita negli originali (la pur meritevole riscoperta di Fragile dei Wire, Layin’ up with Linda di G.G. Allin).

Il recupero di due gioiellini ‘60s come Yesterlove (Sam Gopal) e Dandelion seeds (July) riesce a dare un po’ di varietà ad un disco altrimenti troppo monocorde, aggiungendo un tocco orientaleggiante ed etereo nel primo caso, una psichedelia energicamente funkeggiante nel secondo. Sostanzialmente si può concludere che la scelta dei brani fatta da Dando e soci sia varia ed interessante; la loro esecuzione mediamente buona anche se raramente innovativa, per cui l’ottica interpretativa altamente scientifica con cui eravamo partiti, ossia quella della paraculata, rimane più che valida. Nonostante la tentazione forte di stroncare il disco ci si arrende però a concedergli una striminzita sufficienza, giusto perché ai Lemonheads in fondo gli si vuole bene e gli si perdona anche una cosina priva di prospettiva come questa.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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sarah alle 9:25 del 2 settembre 2009 ha scritto:

Nei primi anni 90 era impossibile non amarlo: voce sbarazzina e stralunata, melodie assassine e coinvolgenti, oltre al fatto che era proprio un bono da urlo. I've never been good with names but I remember faces...