My Brightest Diamond
This Is My Hand
La mano, verrebbe da dire, cè e si sente. Daltronde Shara Worden raramente tradisce le attese. E visto che siamo stati fra i primi a credere in lei, ora possiamo anche dirlo. Grande promessa, sostanzialmente mantenuta, della musica pop più avant e alternativa dellultimo decennio, con i lavori fin qui pubblicati a nome My Brightest Diamond ha sempre concepito opere di ottimo livello qualitativo a cui è mancato, sempre che di mancanza si possa parlare, soltanto il colpo dala definitivo, il brano o la collaborazione crossover che proietta lautrice aldilà della cerchia, comunque ampia, di quelli che la seguono più attentamente. A differenza, ad esempio, di una Saint Vincent a cui tanti elementi la accomunano a cominciare dalla formazione classico-sperimentale, allapprendistato nel giro di Sufjan Stevens, allo stile colto e sincretico accentuato da un uso della voce virtuosistico ed originale. Un parallelismo puramente indicativo e di cui Shara, in definitiva, non ha motivo di adombrarsi. Con This Is My Hand, quarto album del diamante, prosegue con coerenza sulla strada già tracciata dai precedenti, dove gli elementi più alt rock e wave degli esordi hanno sempre minor rilievo e il sound si polarizza sul contrasto fra basi elettroniche calibrate e minimaliste, gli arrangiamenti orchestrali (qui incentrati in prevalenza sui fiati), le melodie barocche e dal respiro operistico. Il risultato finale è forse un po ammorbidito, senzaltro più lineare rispetto a certe sferzanti acrobazie del passato, ma non meno elaborato e raffinato nella ricerca dei suoni e allaltezza sul piano della scrittura.
Meglio la prima parte, in verità, dove si concentrano i brani più ritmici, frastagliati e ricchi di variazioni che rappresentano la cifra migliore del suo obliquo essere dentro e fuori dal pop. Pressure, in apertura, è un piccolo manifesto del suo percorso musicale, di cui si colgono le origini e gli sviluppi, con i melismi di Shara che dialogano in maniera serrata con la sezione di fiati, cesellati qua e là da nicchie di rullate e fuzz elettronico. Ancora meglio fa, a nostro avviso, Before The Word nel vorticoso susseguirsi di ripartenze segnate dal groove del basso, dalla ritmica spezzata e sincopata e dalla voce sempre alata, mentre la title track mescola inflessioni jazzy e soul in un contesto da camera, alternando sospensioni liriche ed atterraggi tambureggianti, Lover Killer amplifica il tutto con un synth-soul quasi anni 80, insieme fisico ed elegante che acquista un incedere netto e possente nel finale e I Am Not The Bad Guy declina le stesse movenze funky in una dimensione più fredda e robotica, con un cantato teatrale e quasi weilliano, nel senso più lato e futuribile del termine. Shape è, invece, il brano che quasi idealmente divide in due larchitettura dellalbum con un suono electro minimalista di ispirazione eniana che sincrina allimprovviso fra inserti di distorsioni acide e rumori di sottofondo. Sullaltro versante infatti la Worden si concede una serie di esercizi di stile nel solco, da lei da tempo delineato, di quelle che definimmo romanze post moderne: il lieder sontuosamente arrangiato e degnamente interpretato di Looking At The Sun, appoggiata sugli scarni puntelli delle rullate marziali o la più sfumata e sognante So Easy, avvolta in strie di cori fiabeschi. Uno schema che si ripete, alla lunga, un po stancamente, risollevato appena dagli acuti e dalle evoluzioni della voce, quella sempre impeccabile, di Shara e mostra un po la corda in Resonance e nei glitch rarefatti, con limpennarsi degli archi sintetici, di Apparition.
Insomma la mano cè. Il disco, nellinsieme, anche. La consacrazione può attendere. Fiduciosamente.
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