Giorgio Canali e Rossofuoco
Nostra Signora Della Dinamite
“Appena dico o faccio qualcosa che possa sembrare alla lontana una fighetteria, lui mi richiama all’ordine”. Sono parole di Vasco Brondi (tratte da un’intervista sul Mucchio Selvaggio, n.d.a.) e si riferiscono al suo mentore/padre putativo Giorgio Canali. Non sarebbe poi così eretico giudicare un artista come Giorgio sulla base della sua rigida onestà, o anche solo dell’affetto che viene facile provare nei suoi confronti. Una persona, prima che un musicista, sana e trasparente, negli intenti e negli atteggiamenti, di rara umiltà, e piena d’amore per le sue canzoni portatrici di verità violenta e ceffoni paterni. Sui trascorsi, il passato (illustrissimo) con CCCP, C.S.I. e P.G.R. (di questi giorni l’uscita del definitivo epilogo “Ultime Notizie Di Cronaca”), vi rimando all’ottima recensione del precedente Tutti Contro Tutti.
Nostra Signora Della Dinamite è il quinto album in studio di Giorgio Canali, quarto coi suoi Rossofuoco (Claude Saut al basso, Marco Greco alla chitarra, Luca Martelli alla batteria). Già la copertina, i foglietti fotografici a corredo (uno per canzone), l’uso del bianco e nero da conflitto mondiale sono i prodromi nefasti dell’atmosfera che respireremo una volta a bordo del tram scassato che è questo disco, che è questo paese, che è questa società. Il primo ascolto non mi entusiasma, a dirla tutta. Trovo le liriche deboli, un tantino banali, e gli scenari sono sì lividi, ma senza asperità. Lo stile è Canali doc, non c’è dubbio, il tipico timbro vocale rassegnato, quella chitarra sottopelle viscida e sfuggente (che tanto ha fatto storcere il naso agli ammiratori della prima ora de Le Luci Della Centrale Elettrica), la bravura ostentata di Luca Martelli che tratteggia con formidabile rabbiosa precisione anche i blues più scarni, e quel basso, quel basso che è manifesto, che è strumento musicale reale, tangibile, e non mero accompagnamento ritmico.
Solo Quello Della Foto, il brano posto in apertura, riesce a entusiasmarmi davvero da subito. In perenne bilico, un crescendo emotivo da brividi, un incubo ad occhi aperti fatto di buio, solitudine, non appartenenza. Basso e grancassa pestata saturano l’oscurità e il violino elettrico scalfisce la penombra come zanzara inopportuna. L’invettiva di Canali è quasi recitata, una violenta presa di coscienza di far parte integrante e morente di quello sfondo cupo, senza futuro (“io sono il non so, il presente negato, io sono quello che non c’è mai stato”).
Con il susseguirsi degli ascolti crescono anche (quasi) tutti gli altri brani, seppur nella loro indole più dimessa del solito, quasi che per il Nostro non abbia più senso combattere in prima linea, ma trincerarsi e limitarsi a osservare, ad occhi bassi. Lezioni Di Poesia, registrata direttamente in casa, possiede la poetica polverosa dei sentimenti semplici, una serenata solitaria sotto la luna, chitarra acustica e canto, mentre Tutti Gli Uomini proprio non riesce a convincermi, con quel ritornello raffazzonato da diario delle medie, e l’epilogo in inglese (“love will tear us apart again”) che mi ricorda (con le dovute proporzioni) gli arzigogoli linguistici del Zucchero più blasfemo. Ma è forse l’unica caduta di stile di un disco altrove godibile e ispirato: Nuvole Senza Messico (evidente la parodia della Messico e Nuvole di Paolo Conte) è una ballata rock’n’roll ricca di ricercatezze linguistiche in rima da tradizione Canali, romantica (“le due o tre cose che mi fanno stare meglio: morirti fra le labbra, un sorriso al risveglio…”) e disarmata (“e che voglia di piangere ho…”).
In Rifugi Di Emergenza torna il Canali chansonnier sarcastico e velenoso, subito incalzato dal cimiteriale incedere della title track, lucida e strisciante come poche. Antichi furori punk’n’roll, che ricordano da vicino la vecchia Coule La Vie (diventata Alealè in Tutti Contro Tutti), tornano a penetrare la corazza in putrefazione dell’animale medio italiano in MP nella BG, sottile e ironica aggressione ai miti di casa nostra e al conseguente rincoglionimento generale (“canta che ti passa, paisà”), e nell’ancora più tirata Respira Ancora, assalto convulso un po’ ripetitivo ma efficace. Nel mezzo la liberatoria Schegge Vaganti, sfogo emblematico di un uomo indifferente, sul filo del rasoio.
Inaspettata, chiude il disco Mme Et Mr Curie, intensa, dolce, pacificata, una delle migliori prove di cantautorato puro della carriera del musicista di Predappio. Strascicata, un'esplosione sonica dilania per lunghi attimi il nero di rosa. Finisce così. Un Don Chisciotte qualsiasi, barba sfatta e sigaretta tra le labbra, vecchia chitarra in spalla col manico rotto tenuto insieme dal nylon, tossisce sussurri al muro scrostato di un mulino a vento. Buio.
Nota a margine. Tutto il mio biasimo a chi ha trascritto liriche e titoli sul pur bel packaging del disco: numerosi refusi e grossolani errori di ortografia (sul retrocopertina “scheggie vaganti” su tutti).
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