Cesare Basile
Storia di Caino
Già se n’è discusso su queste pagine, neanche tanto tempo fa: l’ascosa “nouvelle vague” dei cantautori italiani (il “governo ombra”, mi veniva da dire, ma è meglio non mischiare l’ipotetico col ridicolo…), pronti per rilevare il testimone ad una generazione sfiancata dall’inedia musicale.
Una tendenza ancora sparuta e sommersa ma che va, piano, piano, ramificandosi. La comunione laica di due fra le stagioni più favorevoli nella nostra storia musicale: i gruppi rock alternativi e la poesia dell’uomo della strada, stile one man band. Quello di Basile, in questo senso, è un esempio quasi da manuale: ascendenze indie italiane (l’esperienza nei Quartered Shadows, la collaborazione di Michela Manfroi e Giorgia Poli, già sodali di Benvegnù negli Scisma) e americane (la produzione di John Parish, l’ospitata di Robert Fisher dei Willard Grant Conspiracy) s’impastano nell’eloquio raffinato di Fossati e De Andrè (la ricercata somiglianza con quest’ultimo nella scelta del registro tonale e nel simbolismo dei testi è, a tratti, quasi imbarazzante). In ogni caso: una salutare boccata di wilderness nell’asfittico panorama nostrano.
Gli Agnelli schiude il suo cuore di tenebra, in apertura, con una trenodia semiacustica schermata di feedback crudeli come punte di lance nel costato, percussioni tribali e agitata da due radenti, lancinanti “solo” di armonica, mentre la voce aspra di Basile, talora gracchiante, talora suadente, recita un toccante epitaffio alle vittime innocenti di tutte le guerre “sante”. A Tutte Ho Chiesto Meraviglia è uno stomp lugubre e spettrale (per piano, armonica e sonagli in sottofondo). All’Uncino Di Un Sogno mutua l’orchestrazione morbida ed essenziale (per piano, archi e hammond) dal De Andrè dei primi settanta e verga una delle sue liriche più allucinate e suggestive. Altro pezzo notevole, Canto Dell’Osso è un (alt) country rock in cui le linee del banjo s’intrecciano con la distorsione furente ed elefantiaca della chitarra elettrica (ad imitare pianti ancestrali).
L’intimismo acustico di Per Nome vibra sugli echi desolati dei feedback, del piano metallico e dei rintocchi dell’archetto. Sul Mondo e Sulle Luci attacca come un lied pianistico (reminescente di Verranno A Chiederti Del Nostro Amore) per poi librarsi in muggenti call and response e adagiarsi ad un’andatura shuffle su cui aleggia il romantico vibrato dei violini. L’idillio rustico e fiabesco di Donna Al Pozzo (per banjo, marimbas e ritmica latina) viene subito spazzato via dalla violenza percussiva e “velvettiana” di Storia di Caino, con la sua ritmica in levare, le trombe d’aria di hammond, le chitarre ruggenti e il simbolismo biblico che riflette i suoi primi bagliori sulla superficie specchiata del male. What Else I Have To Spur Into Love, col passo jazzato e la melodia tzigana dei violini, fa un po’ il verso a Johnny Cash nel cantato di Fisher: la fattura è ineccepibile, la pertinenza discutibile.
Il contrappunto morriconiano di 19 marzo (con l’uso di strumenti tradizionali siciliani quali il marranzano e lo scacciapensieri) esalta, per contrasto, il western swing e la violenta invettiva antisociale de Il Fiato Corto Di Milano che ci riporta un po’ Al Ballo Mascherato Della Celebrità (“Cosa volete che me ne freghi se ci faranno saltare in aria / (…) qui non c’è gloria non c’è onore da salvare”). Maria Degli Ammalati, carme bucolico e religioso che, come nei dischi di Cave, rischiara il finale d’un contrastato sollievo, un mattino che si leva come un pugno chiuso dietro il profilo plumbeo d’un notte di tempesta, un ruscello d’acqua santa che trascina via con se i lacerti di sofferenza che ammorbano l’ugola raschiante del solitario cantore notturno.
È tempo di scoprire quello che vi siete persi. L’usato sicuro di Cesare Basile non tradisce mai.
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