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R Recensione

9/10

Giorgio Gaber

Prima del Signor G. - Giorgio Gaber 1958-1970

Che bello passare la mattina di Natale in compagnia del Signor G.

E' una di quelle cose che possono disegnarti un bel sorriso sulla faccia.

Perché il Signor G., a dispetto dello sguardo malinconico e del naso che fa molto poeta francese maledetto, è stato anche (e forse soprattutto) un gran burlone.

Uno che ti spiazza sempre, tanto da renderti difficile distinguere fra poesia e presa per i fondelli, perchè (quasi) sempre le due realtà si sposano alla perfezione e sagomano la figura del Gaber poeta, musicista e pensatore a tutto tondo.

Comunque, è bello svegliarsi con la sua sfrenata allegria, e mettere nel lettore questo tour de force di 75 brani (che poi un tour de force non è: scorre che è una meraviglia), e che ci racconta la prima fase della sua strabiliante carriera: quella che prende forma alla fine degli anni '50 e che si conclude all'alba degli anni '70, attraversando quindi un periodo cruciale della storia non solo d'Italia ma del mondo intero.

Molto “anni cinquanta” (del resto, è da lì che arriva) è il primo singolo, “Ciao ti dirò”: rock'n'roll scanzonatissimo e tagliente, con un testo che è tributo ai grandi d'America e che pure si innesta alla perfezione in una certa tradizione melodica tutta italiana (idem per “Bebop a Lula”).

La raccolta è vastissima e sontuosa. E se srotoliamo la mappa dei generi in voga nel periodo, ci rendiamo conto che Gaber si diverte un mondo a spaziare ovunque, con l'eleganza di chi può permetterselo senza snaturare un briciolo della propia filosofia di fondo.

Il CD introduttivo, in ogni caso, è più che altro gentile omaggio all'epopea mitica del rock ed alla sua carica dirompente, vero e proprio uragano capace di abbattere barriere secolari e di svecchiare, nell'arco di pochi anni, un mondo tanto tradizionalista da apparire ultra-conservatore come quello della canzone melodica italiana.

Non mancano carezze jazz (Giorgio era stimatissimo chitarrista, formatosi studiando a fondo le folate di accordi dei maestri americani alle sei corde), roboanti r'n'b di stampo chicagoano (ad esempio, la gustosissima “Gli amici”, manifesto di un'epoca: E gli amici che si portano al cine le ragazze bruttine e son felici. I miei amici che poi vanno al caffè e sono tutti innamorati di te”), delicate pioggerelline folk (“Suono di corda spezzata”), ballate intrise di storia ed essere stesse storia (“La ballate del Cerutti”), precoci saggi di teatro canzone imbevuti di ironia e risate ("Una fetta di limone").

Proprio il pezzo del Gino Cerutti merita due parole a parte.

Ancora uno sbarbatello, il Signor G. decide di manifestare la propensione a raccontare le storie più umili e faticose, ad addentrarsi nei vicoli della Milano popolare per trasfigurane in poesia la straniante bellezza quotidiana così come gli orrori e le bassezze. Il Bar diventa così un punto di riferimento fondamentale, il fulcro attorno al quale ruota la vita di tutta la piccola comunità di riferimento.

Il suo nome era Cerutti Gino/ Ma lo chiamavan Drago/ Gli amici al bar del Giambellino/ Dicevan che era un mago”.

Ecco quindi che il furto di una Lambretta costringe il Cerutti alla galera, e lo trasforma in un “tipo duro”: una storia banalissima ed apparentemente priva di qualsiasi ambizione “letteraria”, poetica, epica o lirica.

Una storia cui Gaber, però, riesce incredibilmente ad infondere una valenza umana straordinaria, quasi fosse un Tom Waits ante-litteram, solo un poco  (o molto, a seconda dell'occasione) più solare e con meno catrame in gola, catapultato da Pomona alle strade della Bovisa o del Giambellino.

Quasi che, come Pablo Neruda, fosse innamorato della gente “semplice, povera e denutrita”. Quasi fosse un novello Balzac alle prese con una “Comedie Humaine” che si snoda fra i palazzoni di Quarto Oggiaro, anzichè a Parigi.

Ciò che cambia è solo l'ambientazione, è solo la capacità di Giorgio di essere al passo coi tempi, ed anzi di lasciarsi qualche metro alle spalle una quota significativa della concorrenza: ma l'afflato poetico della sua arte è degno di essere accostato a quello di personaggi tanto grandi.

C'è molto altro, nel primo disco: “Trani a Go-go” è un altro romanzo ambientato fra le vite degli umili, in quei locali di terz'ordine in cui bivacca gente poco raccomandabile.

Sono questi i brani in cui il Sig. G. getta la maschera: è un poeta a tutto tondo che decide di incamminarsi sulla strada dell'essenzialità (cara a molti poeti d'avanguardia), sposando un registro confidenziale, quello dell'amico cui puoi raccontare i segreti più intimi (in questo, lo aiuta l'uso della prima persona ed il ricorso a metafore semplici e limpide, che si amalgamano in un discorso estremamente efficace e puntuale).

Goganga” è Gaber all'ennesima potenza, quello che ti spettina a folate di ironia, giochi di parole e sublime leggerezza. “Porta Romana” è il Gaber più romantico e dolce, quello che trasfigura in bellezza eterna le situazioni più banali di ogni giorno, cogliendone con stupore la dimensione più toccante.

Ogni pezzo meriterebbe un'analisi molto più completa ed approfondita della mia, ma ho deciso di non approfittare oltre della pazienza dei poveri lettori.

Basta che si decida di non trascurare le innumerevoli perle contenute nel prosieguo della raccolta: il “Disco 2” è intriso di romanticismo (“Domani ci vediamo”, “Amore ti chiedo un favore”, “Amore difficile amore”, “Amore vuol dire”, “Mai, mai, mai Valentina”), ed è anche un gigantesco omaggio alla canzone d'autore di marca transalpina (qui il rock'n'roll che imperversa fra i solchi del “Disco 1” viene messo in sordina e fa capolino più raramente: Gaber decide di gettarsi di ginocchia nel mondo della ballata d'alta classe).

Una piccola precisazione è doverosa almeno per “La risposta del ragazzo della via Gluck”; e non solo perché si tratta di un brano estremamente divertente e vivace, ma anche perché è il manifesto del Gaber-poeta anarchico per eccellenza, abile non solo a scardinare i luoghi comuni, ma anche nell'affrontare e rovesciare, se del caso, le certezze della musica alternativa. Il Signor G. è un anti-tutto e lo è senza scadere nella polemica più trita o nell'arroganza: anche I suoi “J'accuse” sono sempre velati da elegante ironia e divina leggerezza.

Il terzo disco (si, ce n'è un altro: quindi perdonate un po' la logorrea) contiene molte fra le composizioni più celebrate dell'epoca: da “La libertà di ridere” (che mette alla berlina la seriosità che permea un certo modo di intendere la canzone d'autore, senza rinunciare a spunti e riflessioni di stampo politico, che diverrano il leit motiv della produzione post '70, pur con tutte le peculiarità del caso), il manifesto di “Eppure sembra un uomo” (magnifico atto d'accusa verso le brutture di un certo modo di intendere la vita e le relazioni umane), lo spettacolo da attore consumato de “Il Riccardo” (altro pezzo che si colloca sulla via che porta alla celebrazione della vita del quisque de populo), la scanzonatissima e meravigliosa “Barbera & Champagne”, ove due disperati (per amore) si incontrano nel solito bar per mettere a nudo i propri sentimenti, con tanto di ammiccamenti a Fanfani, Moro e Gianni Rivera (una cosa inaudita e che poteva riuscire solo al Signor G).

Come ho detto, si dovrebbe parlare di molto altro, ed anzi è delittuoso chiudere così la recensione: confido quindi caso nella curiosità delle vostre orecchie, perchè una raccolta del genere non può che conquistare poco a poco, senza lasciare scampo.

 

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