Gus Black
Today Is Not The Day To Fuck With Gus Black
Nei giorni sudaticci viene da pensar male. È facile, allora, che, prendendo in considerazione in una sera periferica della tua vita il nuovo disco di Gus Black, ti venga da pensare che si tratti di un turpe prodotto commerciale, con una copertina pensata per épater les bourgeois, un po’ poliziesco anni settanta (Milano violenta, Bologna violenta, Gus Black violento) e un po’ Nick Cave, e con un titolo inutilmente provocatorio. Ascoltato l’album, però, è altrettanto facile arrivare alla conclusione che, pur rimanendo valide le sopraccitate considerazioni, trattasi in realtà di un signordisco.
Gus Black è un cantautore di Los Angeles con quattro dischi alle spalle. Appena prima di darsi con ogni probabilità allo spaccio di stupefacenti, dal momento che l’unico paese al mondo che degnasse i suoi lavori di un minimo di attenzione era la Germania (!), decide di pubblicare (dapprima solo su iTunes) il quinto. Questo. E decide di sterzare leggermente la ricetta folk-rock del passato, cassando quasi totalmente l’ingrediente rock (solo quattro brani su dodici, e due in modo molto marginale, sono conditi di batteria) e macchiando il rimanente con ampie dosi di noir.
Ed ecco un piccolo capolavoro sospeso tra Leonard Cohen e i National dei sussurri più oscuri (“Racing Like A Pro” da “Boxer”). Arpeggi insistiti e talvolta ossessivi di chitarra, tono cavernoso e felpato assieme, ampio utilizzo di una voce femminile (HT Heartache qui, Constance Baker lì) che faccia assieme da controcanto e da proiezione spettrale della metà rosa (molti i pezzi che parlano di tormentate liaison), assumendo fattezze a tratti demoniache e cimiteriali. Questi, nella sostanza, gli elementi del disco. Solo una manciata di canzoni conosce un arrangiamento più complesso e ricco, anche se mai ridondante. Niente archi, dunque: la nudità di Gus Black è quella della solitudine e dell’abbandono.
Il disco è per lo più scuro e penetrante, ma senza teatralismi. I pezzi più abissali hanno la scarna essenzialità delle passeggiate notturne. “Silent Films” alterna un arpeggio pulito ed elegante, che Gus è abilissimo a modulare nella potenza per ottenerne effetti sempre diversi, e un breve giro di acustica lapidario a sugellare inizi e fini. “Can We Talk About This Tomorrow?” è una brevissima murder ballad; un theremin in “Variations On A Theme Called Honesty” incupisce la melodia ondivaga data dal fingerpicking petulante. Patologia.
Rimane qualche scoria di un folk più rilassato (“Blood And Belonging”, ironicamente in “I’m Fucked”), e rimane soprattutto qualche autentica perla. “Little Prince Town” ha l’andamento ciondolante e febbrile di una giostra; “Hurrah Hurrah Hurrah, Hurray Hurray” è sorretta da un arpeggio ombroso e da una melodia che la doppia guida vocale trascina verso toni intensissimi. “Love Is A Stranger” è semplicemente una canzone perfetta: la batteria spazzolata, l’organo, l’assolo di classica, il glockenspiel e i cori ne fanno il momento più pieno del disco e insieme il più torbido; senz’altro l’apice, di fronte al quale è impossibile non togliersi il cappello.
L’omogenea patina maudit e notturna del disco, allora, piuttosto che essere (solo) una provocazione, risulta il suo vero elemento di forza, capace di farlo librare sopra altri lavori di cantautorato folk più anonimi che affollano gli scaffali musicali di questi tempi. Oggi, finalmente, dopo anni in cui si sarebbe fatto a cuor leggero, non è il giorno in cui mandare a farsi f****re Gus Black.
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