Lone Wolf
The Devil And I
Evidentemente la Bella Union deve riservare una particolare attenzione per il cantautorato, non ci sono altre spiegazioni. Di questi tempi è oro che cade dal cielo: prima Andrew Bird, che per la verità aveva già dato il meglio di sè con altre etichette, poi John Grant, che s'era dimostrato talmente bravo alla sua prima uscita (da solista) da portarsi a letto la regina di Danimarca, la sorella e pure la mamma, e ora Paul Marshall, in arte Lone Wolf; perché il cantautore, artista-poeta, è proprio il lupo, parafrasando Louise Bourgeois, che ulula tutto solo in simbiosi con il suo inconscio, che sa dare alle emozioni una forma e uno stile, e la cui capacità di fare arte non è solo una terapia, ma un vero e proprio atto di sopravvivenza, una garanzia di salute mentale, la certezza che non si farà del male e che non ucciderà nessuno.
Non è quindi una scoperta constatare che anche questo "The Devil And I" sia un disco particolarmente sensibile, di quelli che ti rapiscono nel cuore della notte e ti ammaliano fino all'alba: un album che mette a nudo pathos tonale e tensione batteristica (quasi sempre in crescendo "marziale") e che si mette a nudo con esercizi d'equilibrismo tra la diffusa malinconia melodica e il retrogusto amaro dei testi. E non è un caso se disvela subito una natura familiare, una voce caldissima al fil di metallo che ricorda fulmineamente il sopracitato Grant, con tastiere synth-pop di sottofondo e orchestre di paese Beirutiane per gradire ("This is War"), ma che sa anche mettere sintetizzatori da parte e arrangiare dolcissimi giri di chitarra in sovrapposizione, lente dissolvenze di tromba e apparizioni di xilofono ("We Could Use Your Blood"). Nel lavoro di Lone Wolf non mancano sezioni più ritmate, da un'immaginaria cavalcata, in sapor di western, sulle distese infinite di una stepposa Arizona, con tanto di schitarrate rock sul finire ("Keep Your Eyes On the Road") alle progressioni melodiche circolari, ancora una volta delle chitarre acustiche, e al piacere sottile di un violino in leggerissimo accompagnamento ("Buried Beneath The Tiles").
Complice una durata non proprio (e per fortuna) stiracchiata, "The Devil And I" è un album che riesce a dare anche una certa costanza e continuità alla qualità espressa, senza cadute di stile o cedimenti improvvisi. Lo dimostra la facilità con cui, proprio nella seconda parte, dà vita a due piccoli capolavori, racchiusi simmetricamente dall'apertura ("The Devil And I [Pt.1]") e dalla chiusura ("The Devil And I [Pt.2]") dei brani omonimi: questi ultimi, tra monologhi di pianoforte, battiti di grancassa e voce penetrante, palesano di colpo e con disarmante sincerità tutto il cupo romanticismo nutrito da Marshall ("The Devil and I last night were alone in my house/He laughed at my jokes, struck a match, burned the place to the ground/Never before in my life have I sifted through ashes so fine/To find that my live was all gone, now just pain was all mine."). Ma parlavamo prima di piccoli capolavori, che prima ci travolgono con un fingerpicking d'alta scuola e immagini evocative di struggente bellezza ("We are X, we are Y, but I won't pretend there's no space in my chest/ but russian winter in my veins again" da "Russian Winter") per poi cullarci, con tenero disincanto vocale e lentissimo intermezzo quasi arpeggiato delle chitarre, tra le braccia di un Neil Young poeta, scrittore, viaggiatore ("Dead River").
E dunque eccovi servito l'ennesimo grande album di un lupo solitario in un non-branco di lupi solitari, un album, questo è certo, che può mandare a dormire, per metà felice, quest'anno ormai al tramonto.
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