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R Recensione

7/10

Putiferio

Lov Lov Lov

C’è chi lo definirà il secondo disco di una band padovana nata nel 2004 – non ci vogliono mica gli Uochi Toki per deliberare, no? –, chi impunemente griderà al capolavoro solo perché i titoli sono spesso ripetuti tre volte, chi parlerà di tassello fondamentale per la cementazione della scena post-core tricolore, chi si limiterà ad agitare la falange dell’indice contro suoni colpevoli di essere nati vent’anni fa. Quei vent’anni, per noi, sono altro. Sono una data scolorita sulla carta d’identità. Sono un’epoca di esplosione creativa non vissuta ma vagheggiata, prima del temporaneo oblio e della rinascita. Sono anni – tanti, tanti anni – di sudore, sangue, gavetta, gruppi cambiati come il vestiario autunnale, dischi e canzoni sconosciuti ai più e ai meno, concerti con cinque dieci venti persone, occupazioni e disoccupati, ideologie e fierezza autoconsapevole: termini astrusi fino a qualche anno fa, che riacquistano ora parvenza di significato proprio. Non è un caso che “Lov Lov Lov” capiti, a fagiolo, nell’anno della fine del mondo. Niente è un caso in vita, d’altronde.

Ma i sentimentalismi da discount li lasciamo a chi sognava di essere un maratoneta. I Putiferio corrono, corrono sciancati, corrono impediti, ma corrono. Perché, prima di essere Putiferio, sono (stati) Antisgammo, Kelvin, Bluid, Lodio, S.D.A., chi più ne ha più ne metta: una scia di ruggine e sangue implacabile ed inesorabile. Sono stati il gruppo di “quel” Giulio Ragno Favero che ora si è pacificato – cuore e testate valvolari – ne Il Teatro Degli Orrori, di “quel” Woolter che – assieme alla compagna di vita e di strepiti Anna – ora cura Macina Dischi, “quella” Macina Dischi che produsse nel 2008 l’”esordio” (concederete ulteriori virgolette per l’improprietà del lemma, dopo tutto quello che è già stato detto) “Ate Ate Ate” e che bissa, con un difficile iato di quattro anni, anche “Lov Lov Lov”. Ed i Putiferio, fieramente, sono: sono in un presente che necessità del passato, in chiave retroattiva, per giustificare solo i fini, certamente non i mezzi. Il passo, dal triplice odio al tridente amoroso, non è mai troppo brusco, né troppo azzardato. Porre in calce il suggello di un odi et amo suona da dedica dei baci Perugina, citare la lirica greca o le sfrenate passioni della romanzistica ottocentesca russa da sitibonda vanità snobistica: via l’una e via l’altra, nessuna dimostrazione e spazio alla sostanza musicale.

Coerentemente con l’onestà del gruppo e di quanto si cerca di argomentare, tranciamo di netto la testa al toro. “Lov Lov Lov”, specie se messo al confronto con il predecessore, non è un grandissimo disco: qualche difficoltà nel far rimanere tutto in piedi autonomamente – un po’ di raffazzonamento nei segmenti elettronici, come nella disturbata lontananza ambientale di “Loss Loss Loss”, non entusiasmante –, una schizofrenia sonica e testuale che arriva a lambire il parossismo, una registrazione meno sconnessa e granulosa, più impersonale. Capirai. In effetti. Amore che viene, amore che va. Gli amori si perdono, non si congiungono, non si capiscono. Lasciano solchi, ferite, rancori. Diventano materia esplosiva, odiosa alla vista, spregevole al gusto. La confessione è fredda, spietata, mortalmente autoironica in “Now The Knife Is My Shrink”, dove la lama non strizza ma devasta i cervelli con una grandeur marziale annodata attorno ad un bombastico arpeggiare math. Preziosissima “Can't Stop The Dance You Chicken”, che indovina la serratissima, meticcia ritmica post-punk (sembra quasi di risentire i Redworms’ Farm su un lettino di psicanalisi) impiantandovi sopra convulsioni narrative noise. Stupendo, as usual, il gran lavoro delle chitarre – la riconferma di Mirco, la new entry Jan – che si intrecciano in costruzioni di ardita melodia, sfrontata atonalità, perenne dinamismo (vince chi riesce a tenere il conto del cambio di riff per singolo brano), virulenta esplosione.

Questo sotto la voce “novità”. Sotto la colonna “il primo amore (ahem…) non si scorda mai” mettete tutto il resto, ed un marchio di fabbrica che travalica epoche e continenti, uno stampo dall’auctoritas internazionale e dal particolarismo tutto regionale: verrebbe quasi da scomodare l’abusato “glocale” che, invero, qui calza a pennello. Quindi: ancora una volta, lo ribadiamo, “Ate Ate Ate” era meglio. Nessun problema: ad urlare “chissenefrega” ci penso, per primo, io. Resistere all’onda d’urto del tumultuoso post-core di “Amazing Disgrace” è inutile e impossibile. L’estrema frammentazione di “Void Void Void” esaspera il flusso di coscienza di “Give Peace A Cancer”, riducendo in brandelli ritmica e sviluppo armonico sino ad un elaborato finale su più registri strumentali. Lo sviluppo di “Hopileptic!”, moderna epopea per cuori infranti, si frantuma, a mille all’ora, addosso ad un muro di cacofonica saturazione free form (in mezzo stride e volteggia anche il violino di Rodrigo D’Erasmo, notevolissimo), prima di ricomporsi in vista della ferina, emotiva lacerazione conclusiva. “True Evil Black Medal” sfodera muscoli che nemmeno una temporanea giacenza su archi riesce a sgonfiare, riprendendo poi a picchiare con vigore inusitato in una coda che vola su schegge hardcore e mammut di sembianza doom.

A me tanto evil, in fin dei conti, i Putiferio non sembrano. Certo la storia li definirebbe molto più true. Basta così poco per nobilitare un disco, non pare anche a voi?

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