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6/10

Tyneham House

Tyneham House

Più che un EP (sebbene di ventitré minuti), questo a nome di Tyneham House sembra un album in miniatura. La label di Glen Johnson (Piano Magic, Textile Ranch, Future Conditional) si arricchisce di un nuovo minuscolo ma importante tassello di quel suo stravagante mosaico fatto di una sensibilità sentimentale tutta protesa a raccontare vicende spesso legate a “storie” che sono parte di una più grande historia naturale (vedi i due volumi di “Music & Migration”) e humana.

Il piccolo incantevole villaggio di Tyneham si trova sull’isola di Purbek, nel territorio del Dorset: questo visse in una beata condizione di isolamento fino a quando, per necessità strategiche in prospettiva del secondo conflitto mondiale, si trovò ad offrire le proprie campagne alle grandi manovre di addestramento militare: il cambiamento drastico e definitivo avvenne quando la comunità autoctona fu costretta ad abbandonare il proprio luogo natio. Stranamente questa situazione dettata da una contingenza storica, anziché terminare con la fine delle ostilità, ha continuato a perdurare. La casa che da il nome al progetto è un po’ il simbolo di quanto accaduto, trasformata coattamente da una delle più raffinate abitazioni di campagna del Dorset ad un edificio militare adibito ad usi ben più pragmatici: nel corso di questo cambio di destinazione d’uso, ampie sezioni furono oggetto di pesanti lavori di ristrutturazione mentre decorazioni e ornamenti vennero rimossi, quasi a sottolineare anche simbolicamente il mutamento, la fine di un’era. Ovviamente l’accesso all’area è divenuto soggetto ad una stretta sorveglianza, precludendo definitivamente la visita da parte dei non addetti. Il villaggio è così divenuto una sorta di limbo fuori dal tempo, da una parte protetto con l’istituzione di una riserva naturale, ma allo stesso tempo custodito per motivi di altra natura, impedendo ogni ritorno alla sua arcaica e idilliaca prosperità.

Alcuni musicisti afferenti alla Second Language hanno sentito il bisogno di costituire un anonimo sodalizio artistico (il nome è appunto quello della dimora contesa, mentre quello degli strumentisti non è rivelato), teso alla rievocazione di quel luogo così come lo era prima che la Grande Storia lo “scoprisse”, attraverso una musica certamente bucolica, desueta, acusticamente melanconica, tutta giocata in punta di piedi e adagiata sulle flebili ali di una emozione.

Si tratta di bozzetti sonori di breve durata (mediamente siamo sui due minuti), che non solo tentano di ridare vita ad un immaginario di pura nostalgia e ricordo, salvandolo idealmente dall’oblio, ma che cercano di restituire concretamente colore a vecchie fotografie in bianco e nero scolorite dal tempo: fotografie di sentieri, selciati, volti, campi, crocicchi, stanze, cappelle, animali, alberi, discese a mare. Chitarre acustiche, flauti, qualche sussurro alla Nick Drake (che da voce all’unica “canzone” Post Office Row), harmonium, armonica, amorevolmente assemblati con quel gusto che era appartenuto agli indimenticati Penguin Cafe Orchestra.

Suggestiva nella sua frugale essenza, l’artwork non convenzionale offerto dalla Second Language: una scatoletta di cartone, contenete il cd, un piccolissimo booklet di carta telata (illustrato da Frances Castle) e una audiocassetta contenente field recordings e altre composizioni in linea con quanto già ascoltato, rispettosamente tutelati dall’urto da finissime striscioline di cartone che vogliono sembrare filamenti di paglia.

Il mio voto – mai come stavolta mi pesa assegnarlo – vuole rappresentare, in modo proporzionale, il mio adeguato apprezzamento di un’opera che ha fatto delle dimensioni minute, il suo manifesto espressivo, la sua delicata forza di evocazione.    

“[…] To weave or tale of Time

Rhyme is knit to rhyme

So close, it’s like a proof

That nothing else can be

But this one tapestry

Where gleams under the woof

A giant Fate half-grown,

Imprisoned and its own […]”    

 

“[…] Per tessere la nostra storia del Tempo

La rima è tanto strettamente intrecciata

Alla rima, come a provare

Che altro non può essere

Se non questo unico arazzo

Dove sotto la trama luccica

Un gigantesco Destino incompiuto,

Prigioniero e padrone di sé […]” 

 

Da “The Original Place” di Edwin Muir (traduzione di Maria Pellizzer - Einaudi)

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