Robert Owens
Night-Time Stories
“Robert Owens? Robert Owens! Robert Owens…Who Is He?”
Ci tiene a ribadire il suo nome fin dall’Intro, il buon vecchio Owens, e come dargli torto? Quasi ci si materializza davanti agli occhi il luminoso percorso del Nostro, dalle scorribande come spalla a Larry Heard sotto la sigla Fingers Inc. nelle prime, leggendarie produzioni deep-house, all’eccitazione palpabile (quasi “penetrabile”) che impregnava le sale del Warehouse nei tardi ’80 e guidava i pionieri armati di mixer, piatti, tastiere ed equalizzatori all’alba di una delle rivoluzioni più sconvolgenti del secolo scorso. Uno dei nomi storici del genere, insomma. L’angelo caduto la cui voce efebica e ribelle riusciva a sopraelevarsi dal rigido assioma “house=produttore” (pure incontestabile). Il corpo di androgina negritudine che si agitava nella “musica delle macchine” e saldava la giunzione fra spersonalizzazione delle tessiture e giubilo dei sensi.
A diciotto anni suonati dal primo e fino a ieri unico long playing a suo nome (quel “Rhythms In Me” datato 1990) e a dodici dal fugace EP “Ordinary People” uscito per la sua Musical Directions, Owens (classe 1961) torna a far parlare di sé. Da Londra, stavolta, dove con un manipolo di produttori dall’afflato decisamente europeo (fra i tanti citiamo almeno Jimpster, Kid Massive, Ian Pooley, Charles Webster e Mark Romboy) fa il punto sull’house, traghettandola di forza nel nuovo millennio senza cesure nette, bensì perfezionandone i “significanti” in un’opera d’inaudita compattezza e ispirazione.
Quasi tre lustri, si diceva, sono passati impunemente, eppure non si avverte un briciolo d’affossamento. Qui anzi il gospel “bionico” di Owens sbircia la perfezione del disegno: 11 canzoni splendide più 4 brevi intermezzi spoken-word a sancire la creatività dell’uomo, né più né meno. Canzoni fatte e finite, tipo il solfeggio soul aggiornato alle tinte downtempo di “Now I Know” o il groove passionale di “New World” (ma è un loop di marimba filtrato attraverso un tubo idraulico il suono-guida?) orchestrato da Simbad con straordinario senso della misura. O, meglio ancora, quella “Never Give Up” irradiata da sublimi slanci “kraftwerkiani” e congestioni black d’irresistibile fisicità, istantanea non ulteriormente perfettibile di spleen metropolitano.
Le insegne al neon delle notti di Chicago ritornano a pulsare ad intermittenza, come percorse da un fascio di ritmiche deliziosamente old-skool (riecco la cassa calda e stilosa in 4/4 a massaggiare delicatamente le tempie fin dall’iniziale “Inside My World”), tastiere che scivolano su seta e tessuti damascati (il “muggito astrale” passato al vocoder della paradisiaca “I’m Chained”, gli sfarfallanti synth di “Back To You”), melodie talmente flessuose da sciogliersi in una notte stellata (“Only Me”, rapimento estatico di tastiere ambient e soffici polluzioni in falsetto).
Sopra tutto uno spirito tormentato in cerca di riscatto, ansioso di spezzare le catene che lo costringono ad un’ingiusta reclusione emozionale. Ed ecco la spirale ascendente di “Press On” (qui il mix è dello stesso Owens) a parlarci di un viaggio che vale ancora la pena intraprendere, anche solo per contemplare qualche scheggia della beatitudine racchiusa negli stacchi di pianoforte in delay, nella linea di basso così corposa e “posata”, nei cori gospel a dar man forte al solista, nei tratti sinusoidali del synth.
“Merging” (TJ Kong alias Max 404 e Nuno Dos Santos in cabina di regia) è la deriva ultima del pellegrinaggio, la virginia plain in cui i saliscendi vocali si fanno misto di fervore religioso ed estatico terrore. Uno scontro quasi insostenibile di forze opposte (demoni e angeli, edonismo e misericordia, le tentazioni della carne e il puritanesimo da sempre latente nella coscienza del profeta) nel mezzo del quale l'ugola di Owens non smarrisce mai la retta via, destreggiandosi al meglio fra assalti di maligni loop percussivi e sdoppiandosi, addirittura triplicandosi al cospetto di pulsioni ancestrali fin troppo ardue da gestire.
Un imperscrutabile Outro ci consegna, dopo quasi ottanta intensissimi minuti, un uomo rinato. Il Messia ha parlato, e in noi torna a scorrere la stessa gioia, la stessa febbrile ansia d’assoluto. Catarsi, in ultimo. Il tragitto è concluso: la house è tornata alla sua “casa” e l’eroe ha ritrovato il suo “centro”, seppur geograficamente lontano da Chicago. Da qui (Londra) è possibile partire per qualsiasi destinazione, almeno finché il sentiero che conduce all’illuminazione (meglio, alla rivelazione) è ancora visibile e percorribile. Per ora godiamoci questo spaventoso capolavoro, “definitivo” come soltanto l’opera di un maestro può essere. Imperdibile.
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