J Mascis
Several Shades of Why
Un disco solista di J Mascis, notorio despota all’interno delle varie incarnazioni dei Dinosaur Jr, può apparire un controsenso. E un lavoro prevalentemente acustico, da chi si è costruito una carriera su lamiere di feedback stordenti e assoli a ruota libera, può risultare ancora più sorprendente. Eppure, nella sua pluriennale vicenda artistica non si tratta di una novità assoluta: basti ricordare il live “Martin + me” del 1996, in cui, coi Dinosauri già ridotti a una one man band dopo le ultime epurazioni, l’uomo di Amherst regalò versioni a spina staccata di tante pagine del suo canzoniere oltre a omaggi inaspettati, tipo la quintessenziale “The Boy with the thorn in his side” degli Smiths.
“Several Shades of Why” propone dunque dieci stralunate miniature nuove di zecca dal microcosmo mascisiano. Soffici melodie folk-rock sottratte alle macerie rumoriste della band madre e riallacciate ai momenti più introversi e crepuscolari degli album della consacrazione major anni 90, si pensi alla “Goin’ home” su “Where you been”. Solo voce e chitarra acustica e niente sezione ritmica ― nonostante la vena elettrica riaffiori malignamente qua e là ― e diversi ospiti accorsi a rendergli omaggio (in particolare Sophie Trudeau e Ben Bridwell). Operazione concettualmente affine all’ultimo Neil Young, eterna ossessione di mister J non a caso, e accompagnata da una scrittura altrettanto ispirata nell’ingannare l’usura dei tanti anni sul groppone.
“And we were off again”. Canticchia così J, con l’inconfondibile voce nasale, sulla bislacca litania da folk barbuto “Not Enough”, battezzando col consueto piglio questa nuova avventura. Che si sviluppa su binari ironici e surreali, come in “Listen to me”, “Where are you” o “Is It Done?”. O ritrovando strade familiari nelle ballate per cuori spezzati “Very Nervous and Love” e “Too deep”, fino all’ accorato bozzetto di “Make It Right“ o in quello epico della conclusiva “What Happened”. Già, che è successo? È il solito Mascis imbronciato e sbracato, che non manca di attingere dal suo passato (la titletrack richiama palesemente “Start choppin” e “What else is new?”) o di cesellare l’ennesima “Cortez the Killer” sotto mentite spoglie, ossia la lenta e tortuosa “Can I”. E conserva gelosamente la cintura di campione del mondo, categoria slacker.
È infine significativo notare come tutta l’operazione sia targata Sub Pop. Non solo un escamotage per presentarsi alla generazione Fleet Foxes quale padre putativo, in quanto si tratta di un ritorno. Per la storica ditta Poneman & Pavitt l’autore di “Freak Scene” aveva già inciso nel 1990 il folgorante 7 pollici “The Wagon/Better Than Gone” poco prima di approdare alla Warner, unico lascito dell’effimera lineup con Dan Fleming. Una delle gemme più pregiate offerte dal leggendario Singles Club dell’etichetta di Seattle, nonché paradigma della fase post Barlow del giovane dinosauro. Altra epoca. Anche se, almeno per i 40 minuti scarsi in cui si dipana “Several Shades of Why”, avrete l’illusione che non sia passato poi tanto tempo.
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