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R Recensione

7/10

Bonnie Prince Billy & Dawn McCarthy

What The Brothers Sang

Strano destino quello degli Everly Brothers, il duo formato negli anni 50 dai fratelli Don e Phil. Famosi e acclamati come pochi altri dopo Elvis e prima della british invasion, quindi caduti pressoché nel dimenticatoio per una trentina d’anni buoni, infine oggetto di una timida e circostanziata rivalutazione. Da un punto di vista storico e stilistico sono stati spesso inquadrati (e di conseguenza sminuiti) in chiave anti-rock, come appartenenti, cioè, all’ala pop-country più tradizionalista e restauratrice, tesa a ricucire e normalizzare lo strappo causato dal rock’n’roll e dall’r&b nero, a ripulire certe sonorità per un pubblico bianco e perbenista ancora scioccato dalle fantasie pelviche del Re, dal “passo dell’oca” di Chuck Berry e dai pianoforti suonati coi piedi (e poi dati alle fiamme) da Jerry Lee Lewis. Quasi sempre sottovalutati dalla  critica musicale più esigente e avanzata, quindi, eppure ammirati da alcuni dei migliori scrittori pop della seconda metà del secolo scorso come Paul McCartney, i Beach Boys o Simon & Garfunkel (questi ultimi, per molti versi, l’ideale evoluzione folk e intellettuale dei fratelli Everly) e persino da un insospettabile patriarca degli indie-rocker come Neil Young che introducendoli alla Rock and Roll Hall of Fame nel 1986 ammise di aver cercato di rifarsi alle loro armonie in ogni gruppo di cui aveva fatto parte in gioventù.

Da oggi alla lista di questi prestigiosi ammiratori possiamo aggiungere un altro “insospettabile”, e discepolo di Young, come Bonnie Prince Billy. Nella sua incarnazione più rurale e revisionista,Will “genio ribelle” propone un’inedita rilettura in chiave moderna (e più o meno indie) di alcuni gioielli dei fratelli del Kentucky intitolata “What The Brothers Sang”. Ad accompagnarlo in questo lavoro, ideale controparte femminile del duo, è la brava Dawn McCarthy, più nota come titolare del gruppo Faun Fables, originale act che si muove fra psych-folk, sonorità sperimentali e performance art.  Poco sperimentale, ma intelligente e rispettoso, è invece l’adattamento firmato Bonnie Prince/McCarthy, che mira a conservare l’eleganza e la classicità delle armonie “everliane”, inserendovi tocchi fantasiosi e attualizzanti, sottili slittamenti di genere ed arrangiamenti dal ricamo delicato che sottolineano come l’originalità del duo sia ancora viva e sentita, quasi un filo conduttore in un universo musicale pulviscolare e frammentario come quello attuale, dove le distinzioni fra indie e mainstream, fra artistico e commerciale, sembrano ormai definitivamente tramontate. Lo stesso discorso vale per le due voci, finemente intrecciate e impostate su tonalità classiche e riconoscibili: virile il contralto di Bonnie Prince, alta e impettita la McCarthy.

In questo modo l’artigianato pop anni sessanta degli Everly Brothers indossa una raffinata veste folk da camera – le chitarre pettinate e le orlature di mellotron della crepuscolare “Empty Boxes”, l’arpeggiata e carezzevole “My Little Yellow Bird”, la malinconia autunnale e rugiadosa di “So Sad”, la struggente nostalgia da scrigno adolescenziale di “Poems, Prayers And Promises” (a sua volta una cover di un altro grande e sottovalutato artigiano pop-country: John Denver) – o diventa esercizio di stilnovismo nashvilliano (“Devoted To You” e “What Am I Living For”). Sempre però permeato da suggestioni interessanti e proiezioni retro-futuribili come in “Milk Train”, dove il ritmo svelto e ferroviario e l’incredibile freschezza melodica della strofa trasformano il pezzo in una sorta di antenato americano di certo indie-pop in cui i Belle & Sebastian sono maestri, il sentore di psichedelia appena sfumata e beatlesiana che aleggia sulla coralità di “Just What I Was Looking For”, il country-rock barocco e solare alla CSN & Y di “Omaha”,  i richiami a The Band e Buffalo Springfield di “Breakdown” (l’originale è di Kris Kristofferson) o ai Creeedence in “Somebody Help Me”.

Un’impeccabile rivisitazione di una piccola, forse un  po’ ingiallita e nostalgica, ma comunque preziosa pagina dell’“età dell’innocenza” del pop americano. 

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