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R Recensione

6,5/10

David Crosby

Croz

Finalmente è riuscito a ricordarsi il suo nome, parafrasando il verso (bellissimo e simbolico, in più d’un senso) che dava titolo al suo capolavoro solista, il vecchio David. O perlomeno il suo soprannome: “Croz” appunto. E con esso, mentre già s’approssima la 73esima primavera, ha ritrovato in parte anche la via dell’ispirazione, la voglia di scrivere una pagina nuova, più personale e sentita, accanto a quelle calligrafiche dei tributi e delle celebrazioni, e quella della sala di registrazione, con il primo album a suo nome dal lontano (e sbiadito) “Thousand Roads” del 1993. Del resto già sappiamo: i decenni perduti, la droga sempre più pesante, gli arresti, la lunga lotta per uscirne vivo anche se piuttosto malconcio, minato da gravi problemi di salute, il diabete, il trapianto di fegato eccetra. Nel burrascoso passaggio dal cupio dissolvi a una vecchiaia serena, a crogiolarsi al sole della natia California quasi come un pensionato qualsiasi, la voce ancora giovanile di Crosby si udiva sempre più raramente (reunion e revival a parte), docile e senza grandi pretese: il progetto CPR che era più che altro una specie di terapia familiare e che gli ha permesso, come ammette lui stesso, di ricostruire il rapporto con il figlio James Raymond (dato in adozione alla nascita e poi riabbracciato in età adulta), qualche rimpatriata con i vecchi soci Stills e Nash (magari per salutare l’ingresso congiunto nella Hall Of Fame), la comparsata, nel 2006, nel terzo disco solista di David Gilmour e perfino una più recente apparizione a Zuccotti Park, in mezzo ai giovani, tanto per far capire a Mr Obama (o a chi di dovere) che lui, almeno lui, non ha cambiato idea e sta ancora dalla stessa parte, quella di sempre.

Una sostanziale afasia compositiva, quella dei suoi ultimi decenni, a cui è corrisposta, per contraltare, un’influenza sempre crescente sulle nuove generazioni di musicisti alternativi, forse mai così evidente come nella scena attuale dove - siano i Byrds del “suo” periodo, quelli più psichedelici e innovativi, siano CSN&Y o sia pure il già citato, ineguagliato e seminale “If I Could Only Remember My Name” - in molti dal nuovo folk più pettinato e corale a quello più weird e lisergico sembrano trarre ispirazione dal suo stile inconfondibile (pensiamo anche solo a capofila come i Fleet Foxes o Iron & Wine). Rispetto a quanto detto fin qui, “Croz” ovviamente non basta a colmare l’enorme iato fra la grande eredità di Crosby e il suo più modesto presente ma è comunque un piacevole promemoria, un gradevole ricordo da lasciare magari ai posteri (fra cent’anni, gli auguriamo). Vecchio “brucaliffo” della musica pop più cantautorale e californiana, hippie non pentito, baffuto e charmant, Crosby è oggi più lontano che mai dai furori senili, sempre obliqui e spiazzanti, dell’altro suo vecchio compare Neil Young. Crosby non ha nessuna intenzione di reinventarsi, ha distillato nel tempo una sorta pacatezza appena venata di nostalgia e rimpianto e fa la sua cosa con passo lento, sicuro e affidabile, più volte risaputo ma supportato da una discreta vena melodica e da un’eleganza classica e autunnale negli arrangiamenti curati come la produzione, del tutto indipendente, insieme al figlio James Raymond, che compone con lui e suona vari strumenti.

In apertura “What’s Broken”, uno dei brani più affascinanti, detta la linea in tal senso: la melodia è dolce e confidenziale, il suono arioso e fuori dal tempo e su tutto spiccano la voce di Croz, sempre bella e dolente, e i ricami della chitarra dell’ospite speciale Mark Knopfler. Un altro colpo d’ala ce lo riserva, più avanti, “Morning Falling” pennellate folk-pop a cui archi e tastiere donano una profondità elegiaca, come uno scroscio di pioggia, gelida ed improvvisa, quando l’estate, anche quella “infinita” dell’immaginario west-coast, ti volta le spalle e se ne va senza neanche dire addio. Anche se il brano più originale (per gli standard del disco) e al contempo emozionante è probabilmente “If She Called”: l’arpeggio malinconico ed ossessivo, lo sviluppo tutto orizzontale del brano in una serie di strofe senza ritornello, la voce asciutta di commozione, quasi un sad-core che non dispiacerebbe a Mark Kozelek.

Per il resto Crosby gioca di rimessa, adagiandosi sul ricordo del suo glorioso passato e compensando con la classe la sostanziale mancanza di idee nuove, fra il rock semiacustico e cantautorale (lontanamente CSN) di brani come “Time I Have”, la più ritmata “The Clearing” con un bel break di chitarra effettata prima del finale in picking acustico e la più bluesy e terragna “Set The Baggage Down” e le atmosfere jazzy e crepuscolari ben esemplificate da “Holdin’ On Nothing”, fotografie di un'altra epoca ritrovate nel rullino di una vecchia Leika, impreziosita dalla tromba di Wynton Marsalis e riprese poi con eleganza un po’ sonnacchiosa anche in “Slice Of Time” e “Find A Heart”.

Le puntatine sull’easy listening autoindulgente di “Radio” e “Dangerous Night” poco aggiungono ad un’opera forse un po’ effimera e nostalgica ma comunque apprezzabile per la ritrovata spontaneità e la consumata bravura di uno dei migliori autori che la musica pop-rock americana abbia mai annoverato fra le sue file.

 

V Voti

Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 3 voti.
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inter1964 7,5/10

C Commenti

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nebraska82 (ha votato 7 questo disco) alle 21:43 del 18 febbraio 2014 ha scritto:

Piaciuto assai, un piacevole ritorno, sonnacchioso e ispirato canzoniere westcoastiano. Splendida la recensione.

NathanAdler77 (ha votato 7 questo disco) alle 12:58 del 22 febbraio 2014 ha scritto:

La voce di quest'uomo è ancora un miracolo. Un Croz sornione e di solido mestiere che un po' ti riconcilia con il suo glorioso passato: "What's Broken", "Holding On To Nothing" e "The Clearing" sono (bei) pezzi, ulteriori esempi del suo imprinting autoriale sui tanti figliocci indie-folk-pop come Iron & Wine. "People do so many things that make me mad, but angry isn’t how i want to spend what time i have...Cognitive dissonance they call it...I wonder just how small it, could be made to be in me..."