J Tillman
Vacilando Territory Blues
Per J Tillman, ventisettenne polistrumentista e cantautore di belle speranze, il 2008 è stato un anno da incorniciare. In tempo di crisi, roba da accendere ceri in serie ad una qualsivoglia divinità. Prima l’ingresso nella formazione titolare dei Fleet Foxes per il tour di supporto all’indie-album più incensato e proficuo del 2008, poi la ristampa digitale di tre dei quattro album pubblicati a suo nome (i primi due I Will Return e Long May You Run, J. Tillman e il più recente, l’ottimo Cancer And Delirium) per la Autumn Tone, infine l’uscita del nuovo Vacilando Territory Blues, alimentata da voci che già lo candidavano a ipotetico crack del 2009. Troppa grazia, grazie tante.
E ci perdoni, che lui non ne ha colpa, anzi ci sa fare parecchio, ma tutto questo clamore dopo anni di gavetta in semiclandestinità, anche se umanamente encomiabile, ci sembra francamente spropositato. Le sonorità del Tillman solista, d’altronde, hanno poco a che spartire con quelle delle “volpi agili” a livello di contenuti (il recupero di una certa west-coast semiacustica) e ancor meno a livello di espressione (il suo stile, complessivamente, tende a prosciugare in una scarna e desolata notazione personale l’enfasi fiabesca della band di Seattle).
Secondo un’araldica lo fi che va da Nick Drake a Neil Young, da Smog ad Iron and Wine, da Will Oldham a Damien Jurado e via discorrendo. Anche se raffrontata con l’abulia terminale di Cancer And Delirium, la sua ultima fatica presenta una scrittura decisamente più variegata, rimpolpata da architetture ritmiche più robuste e da arrangiamenti che chiamano in causa altri strumenti accanto ai solitari bozzetti di voce e chitarra. Il quadretto iniziale, All You See, evidenzia rimandi rustico-vocali alla band di cui Tillman accarezza le pelli, e altrettanto suggeriscono le corali di Firstborn, uno dei brani più toccanti, in equilibrio sui tocchi di piano, le pennate della chitarra e qualche clap di batteria; No Occasion e Laborless Land, levano qualche flebile panneggio orchestrale sulla disforia melodica di fondo, tende di pellegrini che vagano in una terra senza pace e senza lavoro dove l’unica cosa che parla ancora di felicità è la Costituzione; Vessels emana una fioca consolazione chiesastica su un aspro picking da pioniere; Above All Man decanta il suo rassegnato epicureismo spicciolo; Steel On Steel insegue un classicismo anni sessanta. Profondo quanto basta, sentito, suonato come si deve.
Anche se le rare scintille d’immortalità scoccano solo in tre casi isolati fra loro: Barter Blues, un pezzo di quasi otto minuti con il bottleneck acustico e le cadenze southern iniziali che disarcionano in un mammuth elettrico e distorsivo quasi stoner, negli arzigogoli free dei fiati in apertura che cedono il passo al Memphis blues d’altri tempi di New Imperial Grand Blues, nella trenodia spoglia e sussurrata di Master’s House.
Promosso con una pingue sufficienza. E buon 2009, Mr Tillman.
Tweet