Soundgarden
Badmotorfinger
Aldilà dei discorsi sul grunge e sulla scena di Seattle, capaci di innescare più diatribe delle guerre puniche, è indiscutibile che i Soundgarden meritino una prospettiva più ampia. La band di Seattle è stata tra i tre-quattro nomi che alla fine degli anni Ottanta svecchiarono l’hard-rock, depurandolo da orpelli noiosi e innestando in un solido scheletro metallico una serie di brillanti intuizioni che avrebbero fatto scuola. Si pensi all’ occulta visionarietà dell’ep di debutto “Screaming life”, che nel 1987 rivelò al mondo l’universo Sub Pop, e alle sulfuree inferriate di “Ultramega Ok” e “Louder than love” .
La lavorazione di “Badmotorfinger”, l’album che avrebbe dovuto consacrare la band di Chris Cornell nell’ olimpo della generazione Lollapalooza, non fu però agevole. L’abbandono del bassista Hiro Yamamoto, fino ad allora spina dorsale del giardino del suono ( si pensi soltanto alle cavernose scansioni di una “Hunted down”) fu metabolizzato dando le chiavi completamente in mano a Kim Thayl. Il geniale chitarrista di origine indiana, con i suoi fraseggi hard-psichedelici sempre più lanciati in fluttuazioni al crocevia tra Sonic Youth, Black Flag e Melvins, marchia indelebilmente il nuovo corso.
Dopo essersi concesso un momento di estatica riflessione coi Temple of the Dog, Chris Cornell riprese invece il proprio ruolo di screamer potente e duttile, instancabile plasmatore di dinamite sonora, affinando oltretutto il proprio songwriting. Il risultato fu l’ennesimo bersaglio pieno, il vero “black album” metal del 1991, cardine del genere per gli anni a venire e pietra miliare del grunge, ormai in rampa di lancio. Soltanto la contemporanea uscita con “Nevermind” oscurò parzialmente Cornell e soci: i molteplici dischi di platino sarebbero arrivati col successivo “Superunknown”, l’album della maturità creativa trainato dall’acido singulto della celeberrima “Black hole sun”.
“Badmotorfinger” si apre con una doppio gancio da ko. “Rusty cage” – di cui Johnny Cash farà una cover ben più torturata della “Hurt” reznoriana – è un assalto al fulmicotone sorretto delle inusuali accordature di Thayl e dell’isterico e selvaggio vocalismo di Cornell. Magistrale la coda melmosa, un saggio di quel punk pesante, stratificato e cadenzato nel suo infrangersi in plumbee scogliere che è stato il minimo comune denominatore del grunge. La disincantata e anthemica “Outshined” si regge sul granitico rifferama di Thayl (tra Tony Iommi e l’ipnotismo di certo post-punk), mentre Cornell si sintonizza argutamente sul montante mood dei Nirvana con piglio ironico e mai autoindulgente: sintomatico un verso quale “I’m looking California, and feeling Minnesota”.
Una volta usciti dalla spirale della caleidoscopica ed efferata “Slaves & Bulldozer”, arriva l’apocalittica “Jesus Christ Pose”, autentico manifesto crossover e brano simbolo della passata decade. Un tribale preambolo, giostrato dall’articolato drumming di Matt Cameron, genera una cometa zeppeliniana ardente tra le lamiere dei Killing Joke, pilotata da un Cornell al massimo dell’estensione vocale e convogliata da una band mai così ispirata nel generare una tempesta sonora ossessiva e feroce. Quasi sei minuti di assoluta perfezione.
Nel prosieguo Thayl sterza il timone verso poderose correnti lisergiche, appena sferzate dalle veementi rasoiate di “Face pollution” e “Drawing flies”. Si ascoltino l’ orientaleggiante “Somehwere”, la narcotica “Searching with my good eye closed”, e la torbida, sabbathiana “Room a 1000 years wide”, in cui la materia chitarristica si dilata in tortuosi sentieri illuminati da un sinuoso sax. Insuperabile in tal ottica è però la fitta, esoterica ragnatela di “Mind Riot”, esaltata dai cupi e vorticosi gorgheggi cornelliani, uno dei gioielli più preziosi nello scrigno del Puget Sound.
I colossali riff di Thayl tornano a furoreggiare negli ultimi episodi: “Holy Water” e soprattutto “New Damage”. L’immortale archetipo di “Dazed and confused”, innescato dal solenne basso di Ben Shepherd, è qui violentato nei fondali di una straripante allucinazione doom e scarnificato in una camera iperbarica dal machete di Kim. In altre parole: il mito di Seattle allo zenith.
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