R.e.m.
Green
Uscito nell’autunno del 1988, “Green” sancì il debutto major della band di Athens. Fu un piccolo evento: il gruppo simbolo del florido movimento indie americano, che col precedente “Document” aveva inclinato il muro eretto dai media statunitensi attorno al punk e conquistato la copertina di “Rolling Stone”, scendeva a patti con una multinazionale. Negli anni ‘80 patinati, dominati in classifica dal pop caramelloso di Michael Jackson e Madonna e dal pomposo street metal dei Guns N’ Roses, il mercato discografico iniziava ad accorgersi che la scena emersa dopo il punk era un movimento non solo culturalmente valido, ma che poteva persino avere significativi riscontri commerciali: come già timidamente dimostrato da Replacements e Husker Du. Quel muro sarebbe poi stato abbattuto da “Nevermind” dei Nirvana e il resto è storia.
“Green” fu apparentemente un album di transizione, nella migliore accezione del termine. Una felice istantanea nel passaggio dalla selvaggia e obliqua patina indie degli esordi alla livrea di gruppo ecumenico, come gli R.E.M. sarebbero diventati dopo il successivo “Out of time”, pur mantenendo quasi sempre intatta la loro anima. Concessioni a un suono più radiofonico e slavato si trovano solo nel singolo “Stand”, ma si tratta di un episodio isolato. “Pop song 89” e “Get up” aprono l’album mirabilmente, inserendo melodie scintillanti e fresche su un impianto folk rock di stampo vanmorrisoniano.
Questa intelligente evoluzione in senso pop trova spazio anche in morbide ballate per mandolino e organo, con testi di Stipe che iniziano decisamente a virare verso quello stile intimista e meno ermetico che farà la sua fortuna in album come “Automatic For The People”. In “You are the everything” e “The wrong child” il gruppo chiaramente inizia a maneggiare una materia sonora speciale, l’embrione del loro maggiore successo “Losing my religion”. Perfettamente riuscita è poi “Hairshirt”, forte di un contrasto luce-ombra ammaliante, con Stipe che si libra maestoso nell’evocare i suoi fantasmi.
I R.E.M. più tradizionali affiorano qua e là: se i sussulti chitarristici presenti in “Turn you inside out” sono vivaci quanto basta, è altresì monumentale il groove rumorista che avvolge le superbe melodie e la critica social-ecologista di “Orange Crush”, là dove la sontuosa “I remember California” evoca frammenti lisergici tra “Murmur” e i Led Zeppelin del terzo Lp.
Apice dell’album è senz’altro “World leader pretend”. Gli elementi che hanno fatto la fortuna dei Georgiani ci sono tutti: il peculiarissimo incedere jingle jangle della chitarra di Peter Buck, il soffice e nervoso drumming di Bill Berry, le pulite linee di basso e i fraseggi pianistici di Mike Mills. Deliziosi inserti di violino e steel guitar intarsiano il tutto, mentre Michael Stipe approfondisce la vena politica di un album come “Life’s Rich Pageant” snocciolando divinamente le paranoie della sua generazione alla fine del deserto reaganiano, in un’America che, citando i beffardi Sonic Youth dello stesso anno, era diventata “la nazione che sogna a occhi aperti”.
Riascoltato oggi, dunque, le definizioni di album di “transizione” o album “politico” stanno strette a “Green”: opera tra le più ambiziose e compiute nell’ampio catalogo di Stipe e soci.
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