R Recensione

5/10

Alice in Chains

Black Gives Way to Blue

In the darkest hole you’d be well advised not to plan my funeral before the body dies”.

Cosi parlò Jerry Cantrell nell’ incipit dell’ultimo album dei veri Alice in Chains, il cane con tre zampe di 14 anni orsono. Di funerali il figlio del glorioso reduce del Vietnam non vuole evidentemente sentire parlare e così Alice torna con accanimento terapeutico a dibattersi in catene. Peccato che manchi all’appello Layne Staley, colui che ne interpretava angoscia e paranoie, dal giogo dell’eroina liberatosi sette anni orsono.

Di tutte le reunion di gruppi storici degli anni 90 cui abbiamo assistito in questi anni nessuna è sembrata cosi sconcertante, data la contumacia di una così celebrata icona. È risaputo quanto Cantrell fosse la principale forza motrice in senso compositivo della band di “Dirt” e di quanto basilare risultasse il suo contributo alle inimitabili armonie vocali che decoravano le varie “Rooster": rivendicare la paternità su uno dei sound più imitati della passata decade appare quindi del tutto superfluo. Il punto è che Staley ha sempre fornito il quid espressivo agli AIC, col proprio canto ora virile e allucinato, ora flebile ed emaciato e col suo lirismo maledetto. Oltre ad ampliare il raggio del rosario hard cantrelliano, impedendone sovente il deragliamento: episodi come “Angry chair” o “Head creeps” del resto uscirono dalla sua penna, e del suo eclettismo fa fede il progetto Mad Season. Senza contare infine il fattore umano, ma qui mettere becco sarebbe cosa davvero delicata, sapendo tutti quanto fosse profondo e morboso il legame tra Jerry e Layne, o speculazioni di mero aspetto economico ( decisamente pleonastiche).

 

Intendiamoci: “Black gives way to blue” è un lavoro dignitoso e se nel 2009 riscuotono credito i Muse o Mika una chance la meritano pure questi pensionati della flanella. L’album è oltretutto privo di facili scorciatoie commerciali: si sa, per andare su MTV al giorno d’oggi è più facile assoldare Timbaland come produttore che non suonare il vecchio hard-rock del North West, Chris Cornell docet. È anzi strettamente ossequioso verso il manuale Cencelli di mastro Jerry: i riff granitici e claustrofobici, le atmosfere rallentate allo spasimo, le litanie vocali su testi evocanti immagini di cupa desolazione e qualche sparuta divagazione acustica alla “Jar of Flies”. Ma l’ispirazione dei giorni passato resta una chimera, cristallizzata dentro un’ epoca irripetibile. Il rimpiazzo di Staley risulta poi palesemente una controfigura, nient’ altro che un paravento per un Cantrell lanciatissimo nel proprio “degradation trip”, spalleggiato per altro da una sezione ritmica efficace come sempre. Nei migliori momenti sembra di ascoltare i dischi solisti di Jerry (anche se  “Acid Hubble” e “Looking view” sono minate da una durata sfiancante), in quelli meno felici tutti quei gruppi che hanno ricopiato il trucco di Alice (Godsmack, Taproot, Staind…) fornendone una versione irritante, come in “Lesson learned” o “Take her out”.

Si potrebbe infine sorvolare sul fatto che non ci sia una sola idea che non rimandi al 1992 se ci fossero canzoni e melodie degne di cotanto lignaggio. La prima traccia “All secrets known” si addentra nelle sabbie mobili del loro sound con una sintesi tanto formalmente impeccabile quanto inevitabilmente già sentita. Che la vena compositiva sia quasi completamente prosciugata si evince subito dopo quando “Check my brain” e “Last of my kind” replicano palesemente la omologa sequenza “Dam that river” e “Rain when I die” di “Dirt” e poi arriva “Your decision”,  aka “Heaven Beside you” in disguise. Una volta scoperte le carte, il meglio lo offre l’asciutto, bronzeo arpeggio di “ When the sun rose again” mentre la “Private Hell” che riporta negli abissi di “Down in a hole” un brivido di sana saudade la farà venire anche ai più inguaribili scettici tra i vecchi aficionados. Non stride dunque che il sipario sulla fittizia seconda vita di Alice cali con la title track, col piano di Elton John (!!!) a puntellare un sentito omaggio al convitato di pietra di questa lugubre e triste liturgia.

V Voti

Voto degli utenti: 5,6/10 in media su 11 voti.
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sarah 5/10
luca.r 4,5/10
Grind 6/10

C Commenti

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NathanAdler77 (ha votato 7 questo disco) alle 14:51 del 19 ottobre 2009 ha scritto:

It's your decision

Anche io, da inguaribile reduce-nostalgico del Seattle sound, avevo schifato il Cantrell per tale reunion però...

Però il disco poi l'ho ascoltato, ed è cazzuto: onore al biondo chitarrista, che come songwriting forse è quello invecchiato meglio tra gli ex flanella-boys ( ascoltare l'ultimo PJ ad esempio, ormai stucchevole pop-rock x pensionati). Il buon Jerry ha pur sempre scritto almeno l'85% del catalogo AIC, a cui Staley donava il proprio angst e canto luciferino inimitabile. "Black Gives Way To Blue" per me è stato una sorpresa,

un buon album rock che con Layne sarebbe stato ottimo...E DuVall lo trovo umile e discreto, tutt'altro che il pappagallo che alcuni temevano.

P.S. -Già nel Cane A Tre Zampe la presenza di Staley era mesmerica, spettrale, quasi un'assenza.