Pearl Jam
Binaural
Questo disco ha un attacco risoluto e punkeggiante, una parte centrale variegata ed eccelsa con i quattro o cinque brani migliori, un epilogo rarefatto e psichedelico. Grande varietà quindi, anche perché da questo disco in poi tutti e cinque i musicisti del gruppo collaboreranno alle musiche mentre i testi restano quasi tutti appannaggio del cantante Eddie Vedder e oscillano, al solito, fra dura protesta politica, amara denuncia di difficoltà nei rapporti affettivi e, per quanto riguarda quelli più ermetici, non si sa bene cos’altro.
Onore ai Pearl Jam la cui umiltà, volontà di mantenere sempre i piedi per terra, indipendenza e rispetto per se stessi e per gli altri sono unici ed esemplari nel business musicale, almeno ai livelli che loro competono di notorietà e successo. Tutt’altro che depressi come l’iconografia grunge da loro ben presto smentita vorrebbe, sono per fortuna sanamente incazzati con chi fa il bello e il cattivo tempo in America ed soprattutto intraprendenti nello sfruttare la notorietà ed il palco per lanciare critiche ed iniziative politiche a getto continuo. L’enorme ed istantaneo successo iniziale è stato da loro nobilmente sfruttato per svincolarsi da qualsiasi condizionamento, fare quello che si sentivano di fare, suonare quello che decidevano di suonare. Hanno “pagato” per questo, con un proseguo di carriera dai risultati molto meno pirotecnici, comunque sostanziosi e gratificanti: massimo rispetto per questi uomini.
Tornando alla musica, la mia personale reazione davanti alle loro opere, “Binaural” ancor di più che altre, è che tendo ad amare perdutamente tre, quattro, cinque delle cose ivi contenute, facendo invece tranquillamente a meno di tutto il resto. Resto indifferente ad esempio a tutte quelle schegge tardo punk (la triade d’esordio “Breakerfall”, “God’s Dice” e “Evacuation” e la ritmicamente faticosa “Grievance”) se non nelle occasionali, brevi e spesso geniali aperture melodiche che contengono (in genere nel ponte). Mi gusto poi, anche se moderatamente, le sortite del gruppo nell’hard rock assai temperamentale ma anche con una certa dose di anonimato, o meglio di appoggio a certi miti come Zeppelin e Who (è il caso di “Of The Girl” e “Rival”) oppure le uscite del cantante Vedder sul versante più intimista e malinconico (“Soon Forget”), alla lunga stancanti.
Ma mi riempio di fervida ammirazione quando le casse dello stereo mi rimandano passaggi melodico/armonici ispiratissimi, conditi magari da interpretazioni col cuore in mano di Vedder capaci di sciogliere anche il marmo. Le ciliegine su questa torta Pearl Jam si chiamano “Light Years” e “Thin Air” mid-tempos lirici e melodicamente eccelsi, con la voce accorata di Vedder che gioca mirabilmente ai limiti inferiori della sua estensione, ed emoziona tantissimo. Altre due perle sono “Nothing As It Seems”, una dark ballad nella quale la Gibson Les Paul di Mike McCarthy, condita di pedale wah wah, stampa note pingui e sostanziose, ed “Insignificance”, capolavoro dell’album e fra le cose migliori dei Pearl Jam, intensissima come solo loro sanno fare con una strofa che si carica nel riffone cadenzato del ponte e poi deflagra nel bellissimo ritornello, in un picco melodico da maestri, coinvolgente.
Le uscite psichedeliche infine si chiamano “Sleight Of Hands” e “Parting Ways”, ma tracce di sonorità oblique e malate vi erano già anche nelle summenzionate “Nothing As It Seems” e “Of The Girl”: espressione della volontà del gruppo di omaggiare vecchi miti formativi e comunque di dare libero sfogo ai propri background musicali per certuni, inutile e pericolosa diversificazione per gli oltranzisti, quelli che hanno orecchi solo per le più monolitiche e rigorose scalette delle opere inizial.
“Binaural” è il terzultimo loro lavoro, fotografa il gruppo all’inizio di questo decennio in una fase più appagata, più risolta, più adulta ma tutt’altro che rincoglionita e soprattutto conformata, visto che i testi sono sempre meno malinconici e più militanti e accesi. Va bene così, viva i Pearl Jam.
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