R Recensione

8/10

Killing Joke

Killing Joke

Io sono una palla di fuoco/fuoco dal cielo/terrore dal nulla/e non mi abbatterete mai.

E' in questi annichilenti versi della canzone "Asteroid" che si può riassumere tutto il credo e l'approccio dialettico che i Killing Joke di Jaz Coleman decisero di mettere in gioco nell'anno 2003, quando dopo un periodo di relativo silenzio (l'ultimo album "Democracy" era uscito nel 1996) pubblicarono un nuovo capitolo della loro frastornante saga musicale. Saga iniziata nel lontano 1980 con un memorabile disco dal titolo omonimo: Killing Joke, lo Scherzo che Uccide. Manifesto di un percorso culturale senza pari nella storia recente del rock, capace di influenzare in maniera decisiva due generazioni di band e di imprimere una traccia stabile e prolifica nel magma dell'immediato post-punk.

Riproporsi con un album inedito dal titolo "Killing Joke", dopo oltre vent'anni, non fu certo il segnale di una mancanza di idee. Anzi, fu come la volontà di riaffermare un primato e una paternità proprio nel momento in cui i molti ideali figli dei Killing Joke avevano consolidato il destino dell'ala più dura ed estrema del rock, contaminandolo e modificandolo secondo un vorticoso desiderio di emozioni forti e contenuti non certo superficiali. Nel 2003 nomi della scena industrial come NIN, Prong, Ministry e di quella nu-metal come Korn e Slipknot non potevano rinnegare l'energia seminale del quartetto britannico di Coleman e Walker, a cui tutti in qualche modo erano debitori. Ma di Coleman e Walker si stavano un po' perdendo le tracce e le nuove generazioni stentavano ad identificare la relazione (o la ignoravano del tutto) tra vecchi dischi come "What's this for..." o "Night Time" e l'ondata tuonante che aveva invaso il mercato a cavallo tra i due millenni.

Ecco, allora, che il teschio rosso su fondo giallo di "Killing Joke" sventolò come un vessillo a ricordare che loro erano ancora lì, non paghi di aver segnato la strada e consci di poter confermare il primato con una nuova opera devastante nei suoni e micidiale nei testi, fondata su una compatta e solida sinergia di menti e strumenti. Una "svolta metal" fu erroneamente definita da alcuni. In verità si trattava soltanto di un balzo evolutivo che rimetteva i Killing Joke al passo coi loro discepoli, portando avanti un discorso iniziato due decenni prima e rivestendolo di una nuova ineluttabile aggressiva forza.

"The death and resurrection show" apre il disco con le migliori intenzioni, sciorinando tutto il Coleman-pensiero in un tripudio di tamburi martellanti e sincopati, con famigliari riff della tradizione di casa e una vocalità che mette subito le carte in tavola. Un timbro feroce, atavico, che esaspera gli stilemi canori del leader portandoli a livelli mai uditi prima. E procede di questo passo, alternando brani più misurati (ma non per questo meno polemicamente "cattivi") a vere e proprie incusrioni nichiliste, come quella della citata "Asteroid", capolavoro dell'industrial-rock che usando praticamente due sole note trascina l'ascoltatore in un apocalittico e metaforico scenario di catastrofe cosmica. O come nelle splendide "Blood on your hands" e "Seeing red", che rileggono tutti i moduli compositivi dei Killing Joke amplificandone la portata e la velocità, mescolando le sensazioni degli episodi migliori di album come "Night Time" e "Pandemonium" assieme alla rabbia beffarda di "Extremities, dirt..." Il tutto passando per l'unica ballad dai toni più scanzonati e celebrativi (immancabile) che grida Oh, canta una canzone di gioia, dolce infanzia... la sopravvivenza è la mia vittoria, è tempo di celebrazione...

Chiudendo la titletrack con "The house that pain built", dai toni assolutamente metal, questo Killing Joke del 2003 sembra porre una nuova pietra di confine del genere e dare il polso dello stato della band, che appena recuperato in formazione il compianto Paul Raven al basso, dimostrò di avere ancora molto da dire senza temere il confronto con i suoi discendenti. Una prova eccellente sotto tutti i punti di vista che ancora una volta confermava il motto del gruppo: Semper imitatum, numquam idem.

 

V Voti

Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 6 voti.
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darko 7/10
Lobo 9/10

C Commenti

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Hermann W. Simon (ha votato 9 questo disco) alle 18:43 del 11 novembre 2010 ha scritto:

la track-list è sbagliata! è quella del disco del 1980..

REBBY alle 18:50 del 11 novembre 2010 ha scritto:

...fino a Primitive (le altre sono bonus track).

Beh direi che non c'è confronto tra i 2 omonimi.

target alle 19:04 del 11 novembre 2010 ha scritto:

Eh, i dischi omonimi mandano in pappa il sistema, vd. Crystal Castles. Correzioni, si spera, in vista.

Hermann W. Simon (ha votato 9 questo disco) alle 19:11 del 11 novembre 2010 ha scritto:

infatti mi sono confuso pure io, ho votato prima di leggere la recensione

REBBY alle 10:23 del 12 novembre 2010 ha scritto:

Ah, volevo ben dire... E' capitato anche a me, al contrario, con Horses di Patti Smith, quasi 3 anni

fa: gli ho dato 7 convinto, in quel momento, di votare l'album di cover che aveva fatto nel 2007

(e meno male che ero in buona quel giorno eheh).

Breus, autore, alle 9:00 del 16 novembre 2010 ha scritto:

Beh, la tracklist è l'unica cosa di cui non sono responsabile... parlate con la redazione

Lobo (ha votato 9 questo disco) alle 12:41 del 8 dicembre 2010 ha scritto:

Ma che me ne frega se la tracklist è sbagliata, questo è un disco con le palle, cari miei. Bravo il recensore, bravo bravo fratello.

Hexenductionhour (ha votato 8 questo disco) alle 15:27 del 19 gennaio 2011 ha scritto:

tritolo

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