A L'indomito sentiero rock dei Pearl Jam

L'indomito sentiero rock dei Pearl Jam

Little secrets, tremors...turned to quake...

The smallest oceans still get...big, big waves...”

È questo, in estrema sintesi, il concetto basilare della vicenda Pearl Jam.

L’immagine del più piccolo oceano che crea grandi onde ben identifica il rapporto tra potenzialità ed effettivi risultati, che nel nostro caso raggiunge vette elevatissime.

Perché, è inutile negarlo, la cifra stilistica e contenutistica del gruppo presentava, fin dai suoi inizi, ben pochi elementi di innovazione. I concittadini Nirvana, seppur con numerosissime fonti di ispirazione, presentavano uno stile piuttosto originale e di rottura rispetto al loro passato recente. Pur proponendo una sorta di resurrezione punk, l’approccio di Cobain e soci era in contrasto con il contesto sociale e musicale.

I Pearl Jam, che rientrarono comunque nello stesso scenario dei Nirvana, e cioè il Grunge, non ebbero mai questa forza di opposizione e rivolta. Anzi, la loro opera si inserì con facilità in un filone di continuità che partiva dal cantautorato di Neil Young e dall’hard rock dei Led Zeppelin e giungeva direttamente agli inizi degli anni ’90, senza però dimenticare il furore dei primi Who.

Tuttavia, nonostante questa sostanziale mancanza di novità, l’opera del gruppo ha assunto una rilevanza non indifferente nella musica dell’ultimo decennio. Infatti i Pearl Jam sono, ad oggi, una delle poche band che ha saputo mantenere inalterata la sincerità e la coerenza dei grandi classici del passato. In un certo senso, i Pearl Jam sono già una band classica.

Qualità musicali, sensibilità e coerenza hanno dato vita ad un microcosmo artistico che rinnova la tradizione del Rock n’ Roll come voce di chi non si adegua alle regole che la società impone e trova una propria via (“I'll take the firmest path”), un sentiero illuminato nella foresta oscura della vita, rischiando di rimanere solo (“Guess I'll lie alone just like before....”).

Va precisato che una continuità a livello musicale e lirico si è sempre sposata con una sana e viscerale posizione anticonformista e di lotta sociale che ha caratterizzato la vicenda del gruppo. A partire dallo scontro con la Ticketmaster, fino ad arrivare ai temi trattati da Vedder nei suoi testi, incentrati sul dolore, sulla sconfitta ( “Isn't it something? Nothingman”.), ma anche sulla rivincita e sull’orgoglio di vivere (“I know I was born and I know that I'll die, the in between is mine, I am mine”).

La band di Seattle ha saputo mantenere quindi dei lineamenti caratteriali ben definiti e solidi. La figura di Vedder, quasi antitetica a quella di Cobain, è esemplificata dalla frase “Take my time, not my life”. Se il leader dei Nirvana rimase in un certo senso soffocato dalla sua stessa sofferenza, ma anche dalla sua immagine, Eddie ha saputo alternare con sincerità speranza e dolore, mitigando l’esistenzialismo del Grunge con un’immagine più umana e fallibile, nonché veritiera, di se stesso.

Non profeta totale ed autodistruttivo, ma spirito guida di una generazione; parimenti sensibile e di rottura, ma non così lontano da un qualunque benzinaio della West Coast e per questo lontano dalla spirale discendente di Cobain. La differenza tra i due è soprattutto caratteriale; se l’uno si immerse ciecamente nell’immagine che il mondo gli aveva cucito addosso, rimanendo schiacciato dalla sua stessa fama, l’altro seppe estraniarsi da ogni sorta di idolatria, tenendo in mano le redini della propria vita e continuando il suo discorso in modo coerente ed intenso. Non a caso il modello del gruppo è sempre stato Neil Young per l’anti-divismo e la capacità di restare se stesso attraverso diverse rovine generazionali, trovando nella musica la salvezza. Vedder e soci hanno da sempre “Keep on rocking in the free world” in scaletta dal vivo, e hanno inoltre omaggiato colui che è universalmente conosciuto quale “padrino del grunge” facendogli da backing band nell’album “MirrorBall” del 1995.

I Pearl Jam affondano le radici nell’humus creativo dei Green River, di cui fecero parte due futuri membri dei Mudhoney, oltre a Jeff Ament e Stone Gossard. In seguito i due formarono i Mother Love Bone, che si sciolsero dopo la morte di Andrew Wood. Sembrava la fine, ma Gossard, su invito del suo nuovo chitarrista Mike McCready, riuscì a riallacciare i contatti con Ament, che si era precedente allontanato da Stone, e mandò, su consiglio di Jack Irons, i nastri delle registrazioni ad Eddie Vedder.

Il connubio tra le musiche ed i testi di Vedder fu così incoraggiante che i tre lo chiamarono a far parte della band.

Fu così che nacquero i Pearl Jam. Nel marzo del ’91 entrarono in studio a registrare il loro disco d’esordio, che avrebbe poi fatto storia: “Ten”.

Seppur inserita nel contesto sociale del Grunge, la band si mostrò fin da subito come una realtà ben diversa e peculiare. Nelle undici tracce dell’opera, i suoni e le atmosfere dominanti sono quelle infuocate ed accattivanti dell’hard rock, miscelate ad una raffinatezza delle composizioni che richiama il cantautorato più autentico ed introspettivo. Per questi motivi, la band si avvicina a Nirvana, Soundgarden, Mudhoney quasi solamente per le tematiche di dolore e catarsi affrontate. Manca infatti l’ardore punk che face la fortuna del movimento, ma le alternative sono di eguale valore e sostanza.

L’ossatura del disco è composta dai pezzi più hard rock e robusti; i riff granitici ed ipnotici di “Even Flow”, magnificamente strutturata sui pieni e i vuoti delle chitarre elettriche, l’ardore epico di “Alive”, con un finale ascendente che sa regalare momenti di grande virtuosismo, la cavalcata torbida e commovente di “Jeremy”, un inno degli emarginati, uno scatto rabbioso contro le ingiustizie della società, se non un canto di dolore ideale, che nei sospiri di coda lascia l’amaro in bocca.

Altri passaggi di forte matrice hard sono l’introduttiva “Once”, con i suoi slanci cruenti, e la rude “Why Go”, che con una ritmica lenta e sorniona costruisce l’impalcatura perfetta per i vocalizzi cavernosi di Vedder.

La tavolozza musicale del gruppo è tuttavia ben più ampia. C’è il punk rock di “Porch”, il noise luciferino di “Deep”, ma soprattutto c’è l’impressionismo vacuo di “Garden”, meravigliosa variazione sul tema, i ricami stranianti di “Oceans”, delicata ballata lunare, e la commozione graffiante di “Black” che, tra rimpianti e solitudine, va a definire uno stato d’animo totalizzante.

I know someday you'll have a beautiful life, I know you'll be a star

In somebody else's sky, but why

Why, why can't it be, why can't it be mine”

Gli ampi spazi solcati dalla chitarra, il canto desolato, il pianoforte dolce, il magnifico crescendo e la voce rabbiosa vanno a confluire in un codice espressivo univoco, ma al contempo universalizzabile. È il dolore espresso puramente.

Un disco dalla qualità sopraffina quindi; sicuramente non innovativo, ma così ricco, bello e coinvolgente da diventare un punto di riferimento per la generazione Grunge. Il successo di “Ten” non fu però esplosivo, ma piuttosto graduale e lento. Altro segnale di come la musica dei Pearl Jam sia entrata a far parte della cultura degli anni ’90 in punta di piedi, senza rivoluzioni messianiche, ma con una forza intrinseca che resiste tuttora alla prova del tempo.

In un certo senso, la band che produsse questo disco era ancora ingenua, non smaliziata, poco inserita nel contesto e quindi meno in sintonia con le direttive principali del movimento. Tali circostanze ebbero influssi sia positivi che negativi. Da una parte, “Ten” ci tratteggia la cifra stilistica della band in tutta la sua semplice purezza, dall’altra ci mostra un approccio forse troppo pulito, curato, rifinito che verrà aggiustato nei successivi due lavori, a discapito di alcuni episodi spontanei e fuori dagli schemi, come potevano essere “Oceans”, “Release” ma anche la stessa “Black”, che ebbero poco da spartire con le varie “In Bloom” e “Lithium”, ben più focalizzate sull’obbiettivo, ma anche meno uniche e peculiari. Il bello dei primi Pearl Jam è proprio questa spontaneità genuina, che li rende forse più dispersivi e vaghi rispetto ai successivi capolavori, ma anche molto interessanti ed imprevedibili.

Tutta le rifiniture negli arrangiamenti scompaiono con il secondo album “Vs.” (inizialmente intitolato “Five Against One”), in favore di un suono più punk, distorto, animalesco e grezzo, segno di una maggior coscienza del fatto che la band era circoscritta ad un determinato filone artistico. Tale cambio di suono è in un certo senso l’assenso del gruppo a far parte di quel fenomeno socio musicale che Grunge.

Le cose vengono messe in chiaro fin da subito con l’accoppiata “Go”-“Animal”, granitica e sensuale, sferzante, debordante, ma anche suggestiva e ben calibrata. Insomma, il buon gusto asservito alla causa punk rock. Questa prospettiva, portata alle estreme conseguenze, fa partorire deliri selvaggi come “Blood”.

Ciò non significa che manchino gustosi episodi di semplice e sano rock, quali “Glorified G”, acuta satira sociale (“Always keep it loaded” riferendosi alla legislazione americana sulla vendita di armi), o la magnifica “Dissident”, suadente e tonante, uno dei migliori episodi pop rock della band.

Tra i numerosi brani di buon rock, quali la vischiosa danza funk “Rats” ( in cui svettano le scansioni della sezione ritmica) e la vivace “Leash”, troviamo anche quel capolavoro che è “Rearviewmirror”, cinque minuti di foga pura, una scarica elettrica che scorre nelle vene.

A questo, si aggiungano “Daughter” e “Elderly Woman Behind The Count In A Small Town” che segnano il definitivo approdo della band a lidi cantautorali di matrice younghiana.

Non manca qualche esperimento qua e là, come la tribale nenia di “W.M.A.”, o la chiusura impressionista di “Indifference”, con uno dei testi più radicali, lucidi e significativi di Vedder.

I will hold the candle till it burns up my arm

Oh, I'll keep takin' punches until their will grows tired

Oh, I will stare the sun down until my eyes go blind

Hey, I won't change direction, and I won't change my mind

How much difference does it make“

Un manifesto di lotta senza mezzi termini.

Questa lotta si tradusse nel rifiuto di omologarsi, di sottostare alle leggi della tv e alle dinamiche commerciali, rinunciando a farsi pubblicità con interviste, evitando per diversi anni di passare su MTV e boicottando Ticketmaster per i prezzi gonfiati dei biglietti ai concerti. L’unico obbiettivo della band era quello di creare un rapporto diretto con i suoi fan, eliminando ogni intermediario.

La grande voglia di comunicare e dare una scossa alla situazione fecero sì che già nel ’94 fosse pronto il terzo disco.

Nel frattempo il microcosmo del Grunge stava cambiando; il 5 Aprile 1994 moriva Kurt Cobain, trascinando nel baratro tutta quella energia e quello spirito di rivolta che aveva caratterizzato il movimento.

Anche i Pearl Jam risentono di tale evento e mutano inconsciamente atteggiamento.

La rabbia e la lotta a denti stretti si mitigarono nel mare di dolore che stava facendo naufragare la scena di Seattle. La violenza dei suoni rimane, ma non è più vissuta passionalmente come prima, è piuttosto contemplata, osservata con distacco. Per questo “Vitalogy”, il disco più heavy della band, non suona affatto come qualcosa di esaltante ed adrenalinico. Sembra molto più simile al testamento di una generazione che, nella morte del suo più grande portavoce, si trova sconfitta e senza orientamento. Si tratta del disco più tetro ed oscuro della loro carriera.

Il requiem della scena Grunge.

Le prime frasi pronunciate da Vedder appaiono perciò molto significative:

No time to question...why'd nothing last...

Grasp and hold on...hold tight and fast...

Soon be over..”

È la presa di coscienza che nulla dura per sempre. È “Last Exit”, l’ultima uscita, l’unica possibilità di fuggire da un vascello che sta ormai colando a picco. La fuga da un mondo che non è più loro ritorna qua e là durante il disco. Gli episodi che richiamano l’estetica di “Vs.” non mostrano segni di compiacimento e presentano anzi alcune variazioni di significante e significato; “Spin The Black Circle”, sfuriata punk di grande spessore, è un elogio al vinile. “Satan´s Bed” ha sfumature bucoliche ed ubriache. “Whipping”, altra sferragliante cavalcata punk rock, è permeata da un senso di distacco, di allontanamento. “Why must we trust all these rusted rails? They don't want no change, we already have”.

I Pearl Jam, che non a caso sono una delle poche band sopravvissute al Grunge, avevano già preso le distanze da un movimento destinato ad implodere, oppresso dalle sue stesse prerogative.

Il gruppo di Vedder non rinunciò a perseguire i suoi obbiettivi, ma riuscì anche a non farsi ingabbiare dalla sua stessa immagine e proseguire la sua carriera senza adagiarsi troppo sugli allori.

L’ultimo baluardo propriamente Grunge, nella forma e nei contenuti, è dato da “Corduroy”, dinamica scarica di sudore hard rock, che ribadisce ancora una volta il rifiuto dei falsi valore propugnati dalla società (“I would rather starve than eat your bread...”).

Nei restanti brani lo spirito combattivo sparisce ed emerge la poeticità dei sentimenti, sempre sorretti da una profonda dignità e autocoscienza.

La splendida “Nothingman”, pur non essendo una novità, ha uno spleen tutto nuovo e spiazzante. Una ballata di pura desolazione, solitudine assoluta (“Walks on his own...with thoughts he can't help thinking..”). L’altra ballata è “Better Man”, un crescendo devastante, parole amare che corrodono, per la loro sincerità. Siamo giunti al contatto diretto tra artista e fruitore, ma nella filosofia dei PJ, tra persone comuni, con gli stessi tormenti, le stesse paure, le stesse aspirazioni e le stesse speranze, come quella che emerge in “Better Man”. Il punto di vista di Vedder non è mai estremista, c’è sempre spazio per una riscossa, il dolore rimane e non può essere ignorato, ma esiste anche la gioia e la rivincita, privata e sulla società. Anche questo rende i testi interessanti e veritieri.

Le vere novità tuttavia sono altre. Quattro episodi di sperimentalismo autoctono. L’ubriaca “Pry. To”, la bucolica “Bugs”, l’ipnosi di “Aye Davanita” e il delirio di “Hey Foxymophandlemama. That´s Me”. Canzoni ambigue, destrutturate, stranianti, ma anche molto interessanti e riuscite. Il loro contributo è fondamentale nel segmentare e fare da contorno agli altri episodi, pesantemente emotivi.

Il nocciolo concettuale è dato da “Not For You”, alacre nenia crepuscolare, e “Tremor Christ”, immensa poesia punk. La commozione è così grande che le chitarre elettriche non riescono a nasconderla, anzi, si fondono insieme, creando un inquietante dittico sepolcrale. Alla furia deflagrante della prima, segue l’oscura catarsi della seconda. I suoni scheggiati e sanguigni si sposano in modo ammaliante alle melodie pensose e fanno da perfetta base ai vocalizzi dolorosi di Vedder. Qui muore il Grunge, sulle parole “To get by...it's divine...Oh, you know what it's like...”. È la deriva finale. D’ora in poi si parlerà di Grunge solamente a livello estetico; l’anima di quel movimento è scomparsa con Kurt Cobain; “Vitalogy” è la campana che suona a morto.

In chiusura, la dimessa “Immortality”, ultimo tributo al profeta defunto. “Some die just to live...”

Terminata la commozione ed il rammarico, una volta smorzati i sentimenti forti, rimane la musica.

Ed è la musica, nella sua manifestazione più pura, l’epicentro creativo del successivo album, “No Code”, pubblicato nel 1996. Dopo la grande pioggia di emozioni del terzo disco si ritorna alla normalità. Il quarto lavoro della band rappresenta il naturale sviluppo di quanto avviato nel ’94.

L’allontanamento dagli stile grunge prosegue in modo evidente, ma non senza ripensamenti.

Troviamo infatti numerosi episodi inediti per la band, ma non manca una certa dose di hard rock classico, quasi a controbilanciare il peso delle novità. Insomma, c’è voglia di ripartire da zero, senza però dimenticare il passato glorioso.

Capita così che tra la nenia agrodolce di “Sometimes” e la cantilena sghemba di “Who You Are” (provocatoriamente scelta come singolo) venga piazzata quella bomba al testosterone che è “Hail Hail”, degna dei migliori momenti hard rock del gruppo. Allo stesso modo, troviamo qua è là, nel raffinato tessuto musicale del disco, qualche esplosione improvvisa. L’epica “Red Mosquito”, la debordante “Habit”, la dinamitarda “Lukin”. Le atmosfere dominanti sono però altre, frutto della nuova voglia di sperimentare e cercare nuove soluzioni musicali.

La foschia ipnotica di “In My Tree” è uno dei momenti più ammalianti, ma la furente enfasi di “Smile” non è da meno, intarsiata com’è da chitarre rauche e ricami alla fisarmonica. I suoni dilatati e algidi di “I'm Open” sono tra i momenti più stranianti dell’intera produzione dei PJ.

Un altro esperimento riuscito è “Present Tense”, magmatico crescendo ricco di misticità e pathos. Non è una ballata, ma nemmeno un brano hard rock. Finalmente qualcosa di indefinito e sfuggente.

A completare il quadro, la ballata tradizionale “Off He Goes”, la soffice alienazione di “Around The Bend”, che completano la trama di sfumature musicali del disco.

La varietà non è mai stata tale, le idee non mancano. Piuttosto viene a mancare la carica emozionale del precedente lavoro. Con “No Code” si attua una sorta di svolta estetica. Non c’è più lo stesso trasporto emozionale di prima, la rabbia e la commozione vengono messe da parte e rimane la musica, nella sua più integrale pienezza ed espressività.

La svolta “progressista” era però destinata a finire presto. È “Yield”, uscito nel ’98, a dettare il ritorno ad un suono più reazionario ed omogeneo. Il rock adulto, che comunque non era del tutto assente nemmeno in “No Code”, rappresenta qui la cifra stilistica dominante. Dopo “Ten” la band si era progressivamente allontanata dal rock classico, salvo qualche episodio marginale; con il quinto album si ritorna allo stile degli esordi, senza tuttavia eguagliarne lo spessore artistico e il trasporto emotivo. Manca la rabbia viscerale e la radicalità del passato, sostituita ora da un approccio nettamente più popolare e disteso.

Si stabiliscono in modo definitivo le direttive prioritarie per la band; chitarre granitiche (“No Way” sembra dei Led Zeppelin) controbilanciate da melodie languide (la furba “Given To Fly”), il tutto condito da qualche sfuriata hard rock (“Do the Evolution”) e qualche ballata malinconica, non sempre riuscita (“Wishlist”). I contenuti sono quindi molto calcolati, la sincerità di “Vitalogy” sembra solo un ricordo; ma non mancano spunti interessanti e gradevoli.

Si parte con la vorticosa “Brain of J”, cavalcata furiosa e frenetica, per proseguire con “Faithfull”, capolavoro del disco, che disorienta con le sue eco intrecciate. La stessa “Given To Fly” è un caposaldo della loro produzione; prevedibile quanto impeccabile nel mescolare chitarre robuste e melodie notturne, ritornelli epici ed atmosfere languide.

Pilate” e “MFC” mantengono alta la tensione; “Do the Evolution” è un tuffo nel furore di “Vs.”; ma la seconda parte dell’album si fa notare più che altro per alcune ballate inconcludenti; oltre alla già citata “Wishlist”, anche “In Hiding” e “Low Light” non brillano particolarmente.

La tribale “Untitled” e la disorientante “Push Me, Pull Me” sono invece una piacevole sorpresa. La prima è una breve quanto demenziale critica alla guerra, la seconda suona invece come un vero e proprio delirio acido. Il disco si chiude con gli otto, indecisi minuti di “All Those Yesterdays

La qualità di “Yield” è evidentemente inferiore a quella dei lavori precedenti, ma certamente non mancano momenti di vivace intrattenimento. Siamo di fronte al manifesto della seconda fase della carriera dei nostri, nei suoi pregi e difetti. La loro parabola artistica è destinata, da qui in poi, a continuare la sua discesa, ma la dignità e lo spessore morale di Vedder e soci non sarà facilmente scalfibile.

Altro evento cruciale fu il ritorno, dopo gli anni di lotta su tutti i fronti, alla corte di Ticketmaster e alla produzione di video musicali. Se da un lato la band si trovò sconfitta in una sua importante battaglia, dall’altro ciò permise ai fan di trovare i biglietti per i concerti con maggior facilità, decretando il grande successo del seguente tour. Non a caso, alla fine di questo fu pubblicato “Live On Two Legs”, che ne fotografava gli episodi migliori.

Il disco seguente segna il definitivo tramonto artistico della band. “Binaural” è infatti una copia sbiadita del disco precedente. I pezzi rock si lasciano anche ascoltare, ma il più delle volte si tratta di un mero esercizio di stile. “Breakerfall” e “God's Dice” puntano su esecuzioni fulminee e scariche adrenaliniche, ma non possono nemmeno essere paragonati ai vecchi cavalli di battaglia.

Insignificance” e “Grievance” sono troppo smussate per pungere.

Non si tratta di brani brutti, ma si ha come l’impressione che tutto sia diluito e ripetuto all’infinito. Manca il divertimento, il sudore e la passione. I Pearl Jam fanno troppo gli intellettuali e si inabissano in un oceano di noia ed apatia.

Ne sono un esempio eclatante “Nothing As It Seems” e “Thin Air”, orecchiabili quanto sonnolente.

Tuttavia, non manca qualche inaspettato colpo di coda. “Light Years” riesce ancora a regalare emozioni con la sua melodia eterea, “Of The Girl” è il brano più peculiare e coinvolgente, mentre “Rival” si compiace con le chitarre abrasive e il pianoforte saltellante. “Sleight of Hand” cerca di graffiare, ma è troppo morbida e dispersiva per andare a segno; in chiusura le sfumature tenebrose di “Parting Ways”.

Un lavoro che mette in evidenza i limiti di una formula musicale stantia, che in precedenza aveva retto molto bene soprattutto grazie all’incredibile ispirazione a livello di songwriting. Sparita questa, rimane davvero ben poco.

Il successivo “Riot Act” non modifica di molto le carte in tavola. Ritroviamo il solito rock epico di “Love Boat Captain” e “Cropduster”, i soliti giochi impressionisti (“Can't Keep”, “Help Help”) , la dose canonica di hard rock (“Save You”, “Ghost”) e le immancabili venature folk (“Thumbing My Way”). Si salva “I Am Mine”, retorica e prevedibile, ma così gradevole e convincente da risultare quasi un capolavoro in un disco del genere. Il testo è quanto meno paradigmatico del Vedder pensiero. “You Are” è uno dei pochi momenti di interesse, soprattutto grazie alla mescolanza di chitarre ed effetti elettronici. Il pezzo più conosciuto è forse “Bu$h Leager”, ma non per meriti musicali. Questo la dice lunga sullo spessore artistico del settimo album dei Pearl Jam, che paga soprattutto la mancanza di grinta ed un sound piuttosto anonimo e svuotato.

Dopo quattro lunghi anni ed un’infinità di dischi pubblicati (gretest hits, bootlegs ufficiali, dischi live) arriva l’ottavo lavoro in studio della band.

Si tratta di un self titled, che riporta in copertina l’immagine di un avocado. È un disco che ci riporta alla violenza punk di “Vs”. Dopo il trittico di rock adulto, finalmente un po’ di sudore Rock n Roll! Inutile dire che si tratta di un lontano parente dei capolavori passati, ma sicuramente il dinamismo ritrovato fa sparire in parte la noia che abbondava in “Binaural” e “Riot Act”.

Le fulminanti “Life Wasted”, “World Wide Suicide” e “Comatose” provocano piacevoli ricordi. La movimentata “Severed Hand” e “Big Wave” ravvivano i fasti hard rock del passato, “Parachutes”, “Come Back” e “Gone” sono ballate con il marchio di fabbrica PJ, solide e vibranti, mentre “Unemployable” e “Army Reserve” si avvicinano pericolosamente al rock anonimo del disco precedente. Ma questa volta la band se la cava e riesce a concludere un disco di onorevole mestiere.

In chiusura i sette minuti di “Inside Job”. Niente di memorabile, ma sufficientemente gradevole da non infangare il nome di una band tra le più rilevanti degli anni ’90.

L’auspicio è che la band possa continuare in modo onorevole la sua carriera, senza naturalmente pretendere di comporre nuovi capolavori, mantenendo però la coerenza e la voglia di comunicare che, soprattutto nei live, continua a contraddistinguerla e che ha contribuito a renderla una delle realtà più significative degli ultimi anni. Tra i loro alti e bassi, tra vittorie e sconfitte, musicali o politiche che siano, i nostri hanno sempre mantenuto un ruolo di riferimento per la scena rock.

Al di là della fase calante di cui sono protagonisti, è innegabile la quantità di emozioni che il gruppo di Seattle ci ha saputo regalare. Se si pensa che il Grunge, in cui erano inizialmente coinvolti, è finito più di dieci anni fa e i Pearl Jam sono ancora qui, certamente più vecchi e opachi di prima, ma ancora tremendamente vividi ed autentici, l’elogio è d’obbligo. Un plauso a Vedder e soci, per quello che hanno fatto e per quello che continuano a (o cercano di) fare.

Keep On Rockin’ In The Free World!”

C Commenti

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ozzy(d) alle 12:26 del 23 gennaio 2008 ha scritto:

once....

Sì, anche se adesso sembrano la versione americana di Ligabue, è cosa buona e giusta ricordare che sono stati un gruppo importante per chi ne ha seguito le gesta negli anni 90. Veicolavano qualcosa che andava oltre il semplice intrattenimento radiofonico, mettendo l'enfasi zeppeliniana di gossard e ament al servizio delle autentiche storie di gioventù violata raccontate da Vedder e un certo impegno sociale.

Alessandro Pascale alle 18:42 del 27 gennaio 2008 ha scritto:

alcune note

1) non sono del tutto d'accordo quando nell'introduzione parli del grunge come di un fenomeno quasi prettamente punk. Il movimento in sè stilisticamente non è omogeneo ed è tenuto assieme solo per l'appunto dalle tematiche e da un certo approccio generale (fattore questo che ravvisi bene). Però i Pearl Jam erano hard-rock. Gli Alice in Chains rock con una spiccata tendenza alla psichedelia e all'heavy. I Soundgarden poi sfiorano il metal. I Nirvana erano punk-rock. Insomma casomai sembra che il punk sia in minoranza...

2) non sono d'accordo con alcuni pareri sugli ultimi dischi: concordo sulla giudizio negativo dato a Riot act ma a mio parere l'ultimo omonimo non è che migliori molto il livello musicale ormai quasi comatoso. Insomma gli ultimi due dischi sono discreti e forse anche qualcosa meno. Ciònonostante il gruppo non è crollato e lascia aperte speranze per il futuro, anche se francamente penso che ormai i PJ si possano limitare ad essere una grande live band e poco più.

E cmq considero Binaural un disco enorme, sul livello dei precedenti no Code e Yield, trittico che complessivamente è un gradino sotto i primi tre dischi che considero eccezionali capolavori, imprescindibili per la scena grunge e per la musica rock tutta dei 90s.

3) a parte tutto ciò bisogna dire che il lavoro è notevole. Complimenti

Fabio Busi alle 13:59 del 28 gennaio 2008 ha scritto:

caro Peasyfloyd. per quanto riguarda il tuo primo appunto, mi sembra di aver sottolineato che l'esordio "Ten" si distaccava dalla scena Grunge, a livello squisitamente musicale, soprattutto per gli arrangiamenti rifiniti e le chitarre meno aspre dei successivi "Vs" e "Vitalogy". non si tratta quindi di un semplice discorso di hard-rock o punk-rock, ma di suoni ed approccio musicale. infatti in "vs" l'hard rock non sparisce del tutto, ma l'amalgama sonoro è ben più tagliente e sferzante di prima e quindi più consono ad accompagnare le tematiche trattate nei testi. per quanto riguarda il tuo discorso sugli ultimi dischi, la mia opinione è che "PJ" sia leggermente meglio di "Riot Act" (e questo mi sembra evidente), ma sicuramente non si tratta di un disco memorabile. in ogni caso grazie dei complimenti.

The musical box alle 12:13 del 30 marzo 2013 ha scritto:

Che binaural sia il tramonto definitivo lo trovo sciocco e denota il fatto che non si conosce la materia esaminata....binaural e' il disco insieme al successivo riot act in cui i pearl jam osano di più in studio con sonorità fino ad allora mai abbracciate e i testi di vedder raggiungono il picco poetico della loro carriera...sentire sleghi of hand, nothing as it seems, parting ways e love boat captain da riot act e' pura poesia...leggere Ligabue mi fa sorridere proprio

The musical box alle 12:16 del 30 marzo 2013 ha scritto:

Retrospettiva scialba e poco competente in conclusione....chi vuole ascoltare e capire i pearl jam non dovrebbe leggere questa cosa

nebraska82 alle 1:04 del primo aprile 2013 ha scritto:

mah, binaural è un buon disco certamente anche se ci si trovano un po' di riempitivi ( evacuation, insignificance, parting ways), come del resto un po' in tutti i loro album. riot act invece proprio non mi piace.

Giuliano Frizzo alle 1:48 del 23 agosto 2013 ha scritto:

Un video che ho realizzato io..... commentate ragazzi e ditemi se vi è piaciuto

The musical box alle 3:04 del 23 agosto 2013 ha scritto:

Fabio busi non conosci la materia