R Recensione

7/10

Can

Soundtracks

Nei ritagli di tempo i Can preparavano pezzi per alcuni film più o meno sfigati. Poca roba a dirla tutta, e molto spesso completamente estranea dai canoni stilistici del gruppo. Ma di sola arte si sa, non sempre si riesce a campare, così spesso ci si deve adattare. E i Can dovettero adattarsi davvero molto dopo la dipartita di Malcolm Mooney, il diavolaccio americano di colore che se ne era tornato di colpo in patria dopo alcuni problemi di nervi (e probabilmente di adattamento).

Rimasti privi dell’istrionico cantante Schmidt e compagni rimasero a girarsi i pollici per cinque mesi abbondanti in evidente crisi creativa. La risposta a tutti i problemi avvenne per caso: la leggenda vuole che un giorno Czukay e soci imbarcarono dal nulla per un’esibizione serale (probabilmente per disperazione) un giapponese che vagava senza meta fuori da un bar. Il tipo in questione si chiamava Damo Suzuki e al concerto cantò con tanta foga e veemenza da provocare una furiosa rissa tra il pubblico.

In realtà il modo di cantare di Suzuki, rilassato, molleggiato, quasi apatico e tendente al narrativo, si adatterà perfettamente allo stile monotonico del gruppo, che si trova di fronte ormai ben nitida la strada che porterà a Tago Mago ed Ege Bamyasi. Soundtracks però è un album di transizione e in esso l’inserimento di Suzuki non è ancora pienamente avvenuto. Essendo anzi una raccolta di brani sparsi troviamo ancora Mooney presente in due brani (Soul desert e She brings the rain), non per niente tra i più “neri” del lotto, pur essendo diversissimi tra di loro.

Il primo infatti è un funk vegetativo e sonnacchioso che ripercorre le trame dei vari Funkadelic e Black Merda. Il secondo invece è un purissimo swing-soul da club notturno anni ’40, aggraziato di un finale chitarristico blues low-fi. Soundtracks in effetti è un album talmente eterogeneo da apparire quasi un’accozzaglia priva di senso. Non per niente è un'opera di transizione, necessario per ricalibrare il mirino con la nuova line-up.

Raggruppa brani di psichedelia inglese piuttosto classica (l’opener Deadlock che non punge nonostante la chitarra abrasiva) ad anomali esercizi easy-listening-pop (Tango Whiskyman) raffinati ed eleganti che lasciano intravedere solo alla lontana le future spettacolari produzioni selvagge, accostandosi anzi molto più alla produzione di un qualsiasi chansonnier melodico appena alternativo (chessò, un John Cale qualsiasi).

Se Deadlock (Titelmusik), interessante squillo di tromba in pompa magna, è ininfluente per la scarsa durata, Don't Turn the Light On, Leave Me Alone è un brano che merita molta più considerazione, quanto meno anche solo per il fatto di essere la prima registrazione ufficiale del gruppo con Suzuki. Oltre a ciò il pezzo è interessante perché più di altri mostra il percorso che il gruppo sceglierà di portare a compimento: completa emancipazione dallo stile americano e trionfo della monotonia strumentale e vocale, appena rimpolpata da tanti piccoli stimoli e accelerazioni tribali che immergono totalmente in una giungla sonora appiattita in cui sembra non succedere niente di rilevante. Nonostante ciò il brano pare ancora un bozzetto più che l’esito di un percorso maturo.

In realtà il vero motivo di interesse del disco è tutto in Mother sky, capolavoro di quattordici minuti degno di essere elencato tra le massime produzioni della band tedesca. È una scarica elettrizzante, un vero alter ego alla velvettiana Sister ray: garage-psichedelico frenetico e selvaggio in cui a diventare protagonista assoluto è Jaki Liebezeit, il cui battito alla batteria è incessante, regolare eppure anarchico, scandendo il tempo con precisione sublime eppure scatenando più o meno consapevolmente un’energia e uno spirito libero assoluti.

La base ritmica (completata dal solito sgusciante basso di Czukay) è la vera protagonista di una sabbongia che trova meravigliose gioie nell’azione di chitarra (Karoli si diverte a svariare a piacimento) e percussioni varie (ancora Liebezeit, onnipresente!), creando sovrapposizione armoniche semplici ma esplosive. Mother sky è un gioiello frutto di tanti elementi: dai wah-wah e assoli hendrixiani alla frenetica volontà di ballare a tutto spiano, dal basso roboante ai lavori di sovraincisione di un Czukay sempre fedele al colto verbo elettronico di Stockhausen. A sentirla oggi non si può che avere i brividi. E allora non si può che rivalutare anche un disco frammentato e disomogeneo come Soundtracks.

V Voti

Voto degli utenti: 6,1/10 in media su 4 voti.
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bart 6/10
alekk 6/10

C Commenti

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bart (ha votato 6 questo disco) alle 0:33 del 29 aprile 2010 ha scritto:

Disco frammentario, composto per lo più da schizzi sonori che da canzoni vere e proprie. Su tutte troneggia ovviamente Mother sky: paranoica e ossessiva, che suona come un'anticipazione del superbo capolavoro Tago Mago.

alekk (ha votato 6 questo disco) alle 19:31 del 8 luglio 2013 ha scritto:

il disco più modesto della prima era Can. Troppo improvvisato e senza troppe idee finisce nel dimenticatoio(giustamente) schiacciato dal grande valore degli album che lo circondano. Solo Mother Sky è davvero degna di loro stessi.