Can
Monster Movie
Dicono che un giorno Stockhausen sia uscito fuori di testa dopo aver ascoltato un concerto dei Jefferson Airplane. Dicono anche che la stessa cosa successe all’insegnante di musica Holger Czukay quando uno dei suoi alunni (Michael Karoli) gli aprì un mondo suonandogli I am the walrus dei Beatles. Uno choc talmente violento per Czukay da spingerlo a chiamare l’amico Irmin Schmidt (entrambi ex alunni proprio di Stockhausen) per rilanciargli con forza quell’idea balzana di mettere assieme un gruppo che sapesse portare avanti il discorso musicale “colto” portato avanti dal maestro, tutto teso a coniugare musica classica sperimentale e nascente musica elettronica in un’ottica tutta avanguardista. La strada intravista da Czukay però tende a fondere queste istanze con le infinite potenzialità espresse dalla popular music. Così ecco l’interesse per pilastri come Jimi Hendrix, Frank Zappa e Velvet Underground.
I Can nascono quindi come un ensemble di musicisti colti e maturi (quasi tutti ultratrentenni) dal progetto entusiasta e cosciente di Czukay e Schmidt. Il primo prese in mano il basso, il secondo si dedicò agli strumenti a tastiera (organo e piano a seconda delle evenienze). Il giovane diciannovenne Michael Karoli fu arruolato alla chitarra probabilmente anche solo per i suoi indubbi meriti cognitivi mentre alla batteria si sedette tale Jaki Liebezit, un tale che aveva suonato free-jazz per un lustro intero in Spagna prima di rimanere folgorato da “una specie di fricchettone” che gli aveva “consigliato” la ricerca di una maggiore monotonia ritmica. Una spinta verso uno stile semplice e diretto che verrà accettato dall’intero gruppo (non certo dopo pochi dubbi e polemiche) che inizialmente prese il nome di Inner Space Productions.
Mancava l’ultimo tassello che arrivò in un soggetto del tutto inaspettato: Malcom Mooney, artista e insegnante afroamericano non aveva mai cantato prima. Il suo destino si incrociò a quello della band per volontà della moglie di Schmidt. La prima novità introdotta da Mooney fu il nome, cambiato in Can, parola dai molti significati: “vita” e “anima” in turco, “sentimento” ed “emozione” in giapponese, ma comprendente anche l’accattivante possibilità di un acronimo politico per Comunismo Anarchia Nichilismo. Ad ogni modo nel 1968 il gruppo era ormai definito e pronto per entrare in studio a registrare il primo lp, Monster movie, uscito per la Music Factory nel 1969. Quattro pezzi in tutto, tre per il lato A del disco, uno solo lungo venti minuti (You doo right) per il lato B.
Si parte con Father cannot yell. Il suono dei Can è già ben definito: basso borbottante e vorticoso, chitarra aspra, secca, acuta e acida, rumore organistico monotono, batteria metronoma, squarci di quella psichedelia lisergica americana più scura (quella, per intenderci, dei primi Velvet Underground) ma con una maggiore predisposizione ad una musica ritmica adatta per un garage-sabba selvaggio e infuocato. Mooney fa capire subito di non essere un cantante convenzionale, è più che altro una voce nera che racconta e declama, astenendosi da virtuosismi e facili melodismi, anzi straniandosi quasi completamente dalla musica alla ricerca di un contatto mistico qualsiasi, diventando quasi parte integrante del ritmo stesso con quel divertissement gutturale che si pone di fatto come strumento ritmico aggiunto. È una giungla di vitalismo, una sabbongia frenetica ed eccitante. Un brodo primordiale da cui emerge la complessità della semplicità. Una ricetta che paradossalmente diventerà un punto di riferimento imprescindibile per il movimento punk-wave.
Col secondo brano si tira subito il freno a mano ma lo si fa in una maniera sublime: Mary, Mary so contrary è una ballatona che ricalca gli schemi più convenzionali eppure è probabilmente una delle più elevate produzioni del genere nonché forse il brano più riuscito del disco. La voce di Mooney si fa tenera, appassionata ed evocativa, Karoli alla chitarra porta avanti un assolo semplice ma devastante. La ritmica perde la centralità sonora e resta un po’ in disparte lasciando che l’eccezionale intensità si concentri tutta nel binomio chitarra-voce, raggiungendo il primo apice nel “mary” ripetuto ossessivamente da una voce quasi lacrimevole tremendamente soul. Il secondo apice è alla fine del cantato ed esplode nella perfetta solitudine in cui si ritrova per pochi secondi la chitarra di Karoli. È il culmine di un climax ascendente che d’ora in avanti diventa discendente trascinandosi con livore verso dolci declivi portando alla massima esaltazione uno stile gilmouriano-hendrixiano tremendamente romantico e lancinante, nonostante ancora una volta non particolarmente virtuoso.
Outside my door torna ai ritmi frenetici iniziali con un attacco garage-rock fulminante degno dei migliori Who da cui si fanno largo organo e violino. Chitarra e basso iniziano a girare furiosamente e insistentemente mentre Mooney si lascia andare ad urlacci talmente rabbiosi e sinceri che a fine brano resta praticamente rauco. Sorprendemente compare un assolo virtuoso decisamente fuori luogo (probabilmente l’unica cosa davvero inutile del disco) prima di tornare nel labirinto circolare e ipnotico. È ancora rock’n’roll ma garage e space-rock sono molto più che soltanto alla finestra. In ogni caso un suono profondamente americano che nello stesso periodo viene sviluppato con successo anche dai compaesani Amon Duul 2.
You doo right è sostanzialmente il primo vero salto nel vuoto compiuto dai Can. Il primo esperimento radicale compiuto verso la Kosmische Musik. Sinfonie e melodie si aprono a squarci poggiando sul battito discreto ma essenziale (mai una riga sopra il dovuto) del batterista mentre Mooney appare a seconda delle prospettive lisergico e allucinato o profeta e metafisico: sussurri e carezze vocali si alternano a proteste black per il suo difficile stato personale di nero americano in Germania. Mooney sente e vive la musica con una purezza e un protagonismo soprendenti: rantola, sale d’intensità, torna a svariare; ad un certo punto la sua voce resta sola, appena accompagnata da un battito di bacchette. Poi si gioca a recuperare scale blues, ovviamente in maniera anomala e distorta. Il ritmo si fa statico, ancora più ipnotico tra pause e ripartenze impetuose. Infine il pezzo si spegne quasi senza motivo decrescendo di volume, quasi si sia voluto porre termine con la forza ad una composizione che sarebbe potuta proseguire all’infinito in una circolarità spaziale definitiva.
Si è fatto spesso il paragone con Sister ray per descrivere You doo right. In verità le due composizioni hanno in comune solo la spropositata lunghezza e l’approssimata esecuzione in presa diretta. Decisamente radicata nella tradizione rock bianca è Sister ray, completamente nera è invece You doo right. L’impalcatura ritmica costruita da Czukay e Leibezeit si fa rigidamente monotona e ascetica, diventando il prototipo ideale cui guardare per chiunque pensi di riallacciare la musica rock alle sue radici africane. Di fatto molte radici del dub si trovano già qui, tanto è vero che lo stesso John Lydon elencherà i Can tra i maggiori ispiratori dei PIL. Monster Movie è di fatto già un capolavoro imprescindibile del kraut-rock e della musica tutta, ma nonostante ciò i Can sapranno andare oltre e scavalcare più volte loro stessi.
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