R Recensione

8/10

Ballboy

I Worked On The Ships

I Ballboy sono un gruppo di Edimburgo e propongono, fin dalla fine dello scorso millennio, un delizioso (ma non troppo originale) e fragrante twee pop. I Ballboy, raccolti attorno alla leadership del vocalist-chitarrista Gordon McIntyre, agli inizi di questo millennio hanno inciso 3 dischi  (4 se contiamo la raccolta dei primi singoli) nei quali marcata, potremmo eufemisticamente dire,  è l’influenza dei Belle And Sebastian e del loro peculiare modo di strutturare songs e cantato. I Ballboy hanno quella dolce malinconia e quella soffusa tristezza che solo i paesaggi e l’aria della Scozia sanno ispirare.

E questo poteva essere veramente tutto quello che c’era da dire se i Ballboy si fossero fermati al loro terzo (quarto) album, The Royal Theatre del 2004, e non avessero, invece, dopo ben quattro anni di pausa, tirato fuori un’opera assolutamente entusiasmante, a tratti vicina al capolavoro. E così il gioco si ribalta e le prospettive improvvisamente si capovolgono. Se, per i dischi precedenti, le buone idee, le belle canzoni, i suoni persuasivi non riuscivano a vincere il senso di derivazione, di già sentito, di debito nei confronti di  Stuart Murdoch e soci, siamo ora costretti ad ammettere che, seppure ancora parzialmente legati alla lezione dei Belle And Sebastian, i Ballboy, grazie alla bellezza dei brani, alla facilità e felicità compostiva, alla essenziale lucidità delle loro intuizioni sonore, ad una immediatezza che non è mai banalità, con I Worked On The Ships sono approdati ad una visione musicale personale e autonoma, ad una consapevolezza finalmente matura delle loro capacità creative, in definitiva alla totale emancipazione artistica dai modelli archetipi, non rinnegati ma rielaborati e ri-generati.

Negli undici brani di I Worked on the ships armonie elettro-acustiche, impreziosite talvolta da qualche luccichio elettronico mai troppo invasivo, liriche coinvolgenti, ironia e tristezza si rincorrono senza concedere mai un attimo di requie emozionale all’ascoltatore. Entusiasmante davvero l’incipit che sfodera in successione la gentilezza avvolgente e malinconica di The Guide to the short wave radio, che, non solo nella lunghezza del  titolo (caratteristica di molti brani del disco), richiama tanto i pluricitati Belle And Sebastian ma anche gli episodi più intimisti degli Smiths, la splendida Songs For Kylie che insiste sui territori musicali della precedente, intrecciando sapientemente piano, violino e chitarre e la più incalzante Cicily che deve più di qualcosa alle ballate dei Decemberists. L’universo Ballboy è intriso di una tristezza che mai sfocia in un dolore gridato, storie di cuori spezzati, occasioni perdute, nostalgia e abbandoni che per fortuna non dimenticano (quasi) mai di conservare una punta di beffarda e straziante ironia (I miss you when I sleep, I miss you when I sing, A fool it was who said, That true love conquers everything” – The guide to the short wave radio. “I lie awake half-blind, half-drunk, in a half-religious daze, and think about the life I had Songs for Kylie).

Non facciamoci perciò ingannare dai titoli fumettistico-adolescenziali delle successive Godzilla vs the Island of Manhattan e Disney’s Ice Parade suadenti e più che convincenti esercizi folk-pop che aggiungono sempre nuovi tasselli al mosaico di spleen esistenziale dei Ballboy. A relatively famous victory è uno dei vertici dell’album, soffusa di un’iniziale placida, quasi immobile desolazione, cresce un po’ alla volta fino a portarci a vertici di estasi emozionale combinando Decemberists (ancora!), Camera Oscura e Orwell (“‘we could live in Paris or London, build a cottage on a Scottish Island and lie there and feel the waves attack the shore’ ). Empty Throat  commovente nel suo incipit di violino, che ricorda tanto “Good Feeling” dal primo Violent Femmes, e nel successivo dispiegarsi, fra riverberi ed echi, della bella voce di Gordon e la finalmente un po’ più ritmata (ma senza esagerare) We Can leap buildings and rivers but  really we just wanna fly, ironica tanto nel titolo che nei suoi coretti very easy, introducono un altro vertice dell’album, un altro piacevole inganno Ballboy che sembrano tranquillizzarci perché “Above the clouds the sun is always shining”, promessa che, prontamente, il bellissimo e struggente intrecciarsi delle voci di Gordon e la tastierista Katie Griffiths (come Lou e Moe, Stuart e Isobel, David e Jill) smentiscono clamorosamente non lasciandoci dubbi sul fatto che dobbiamo solo aspettarci solitudine e isolamento nella nostra esistenza (“You’re walking home and you’re on your own and your mobile phone has no news at all”).

La piacevole scorribanda elettrica di Picture Show, a mezza strada fra What Goes On dei Velvet e la Canzone del sole di Battisti (!!) e che alla fine mi fa venire in mente i mai troppo apprezzati Go-Betweens, e l’ennesima dolcissima suite pianistica di Absent Friends ci danno il commiato. Con I Worked On The Ships i Ballboy smettono di stare ai bordi del campo a raccattare palle altrui, scendono a rete e chiudono con un perentorio smash.

V Voti

Voto degli utenti: 7,7/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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salvatore (ha votato 8 questo disco) alle 17:49 del 14 ottobre 2010 ha scritto:

Eh sì, proprio un discone, come anche il primo della loro discografia. Lì dove era la semplicità indiepop a colpire qui è una maggiore complessità (sempre deliziosamente di matrice twee) e in alcuni frangenti (la meravigliosa empty throat) arriviamo addirittura a toccare gli imperdibili galaxie 500.

Bellissima recensione Benoit

8 pieno!