Interpol
Our Love to Admire
Gli Interpol sono probabilmente il gruppo peggio vestito al mondo, e i suoi componenti hanno delle facce da schiaffi mica da ridere. Copertine e videoclip sono orrendi, il loro palese amore per i santini new wave ha dato il fiato a tutta una genia di cui non si sentiva il bisogno ( Editors in testa). Infine, il loro contributo alla crescita del rock rasenta probabilmente lo zero e, in fondo, gli scarti stilistici non solo tra i loro album, ma tra le stesse canzoni all’interno dei medesimi, sono minimi.
Tutte argomentazioni che si sentono spesso, e che spesso centrano il bersaglio. Tuttavia, non ce ne può fregare di meno:”Our Love to Admire” è un album imponente, fatto di canzoni che lasciano il segno. Come per il suo predecessore “Antics”, non mancherà di dividere: da una parte chi lo considererà niente più che un esercizio di manierismo, dall’altra chi penserà esclusivamente a godersi una scrittura che schiude universi lascivamente e incisivamente cupi. Dote non comune in questi tempi di stagnazione in ambito mainstream.
Si apre nel modo più piacevolmente prevedibile la terza fatica di questi inguaribili gaglioffi: la fosca e dilatata marcia onirica di “Pioneer to the falls” sciorina in quasi sei minuti da brividi le potenzialità della band newyorchese, il cui suono è enfatizzato da una produzione smagliante, che aggiorna le magiche atmosfere del debutto “Turn on the bright lights”.
La seziona ritmica, come sempre ancorata al cavernoso basso di Carlos Dengler, pulsa come le è consueto e il batterista Sam Fogarino ricuce con gelida precisione le lacerazioni di un tessuto sonoro decadente e maestoso ( tastiere e archi si incastrano alla perfezione). La sei corde di Daniel Kessler forgia trame velvettiane capaci di trasformare le melodie in ferite aperte mentre Paul Banks gorgheggia da par suo: cinico e sprezzante, per poi sciogliersi in un “You fly straight into my heart” da brividi.
Gli episodi immediatamente successivi presentano Banks e soci sostanzialmente appiattiti sul loro sound, benchè non manchino adrenalina e sfumature in grado di far luccicare il consueto canovaccio al crocevia tra il post punk e il goth. Le poderose aritmie di “All fired up” e “Mammuth" e gli intrecci chitarristici in accordi sospesi su reiterate figure di basso di “The scale” e “Pace is the trick” si guadagnano spazio tra i classici della formazione, riscattando il mezzo pazzo falso del decadentismo un pò ridondante di “No I in threesome” o l’innocuo numero radio-friendly di “The Heinrich maneuvre”.
Ma il fulcro di “Our Love to Admire”è sbilanciato verso l’epilogo. “Rest my chemistry” presenta la circolarità e il crescendo armonico delle migliori ballate alla Afghan Whigs, grazie a uno spleen aureo e dandy che accomuna Banks al Greg Dulli dei tempi d’oro. “Wrecking ball” approda in una remota e fumosa zona della forma canzone, ma è con la conclusiva “Lighthouse” che gli Interpol si superano. La scogliera a strapiombo sul mare in tempesta come rappresentazione dell’istante mistico ed effimero del vissuto, resa da una schitarrata soffusa, mantrica e psichedelica che sfocia in un crescendo tenebroso, solcato dal magistrale cantato di Banks.
D’altronde si sa: è nell’oscurità che il diadema Interpol preferisce brillare, immutato.
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