The Chameleons
Script of The Bridge
“Dear listener, thank you for lending us your ears”: con queste parole umilissime i Chameleons si presentano agli acquirenti del loro primo album. Come se il combo, composto da Mark Burgess alla voce e al basso, Dave Fielding e Reg Smithies alle chitarre e John Lever alla batteria, fosse già consapevole del destino fallimentare incontro al quale sarebbe andato e offrisse in maniera esageratamente timida la propria musica. E infatti il quartetto non riuscì mai ad ottenere il successo commerciale e la fama di altri gruppi dell’epoca, rimanendo un cult per pochi adepti. Solo molti anni dopo verrà riconosciuto per la sua grande influenza –un’influenza che va dagli Smiths agli Interpol – e il suo valore. Script Of The Bridge rimane la sua opera più oscura e riuscita, anche se i due successivi album saranno lo stesso due gemme luminosissime. Nel 1987, in seguito alla morte del manager Tony Fletcher, il gruppo si sfasciò.
I quattro componenti continuarono la carriera musicale fondando diversi progetti, mentre uscirono negli anni a seguire vari live che continuavano a celebrare la band madre. Nel 2000 uscì Strip, raccolta di vecchi brani camaleontici in versione acustica registrata da Burgess, Fielding e Smithies, seguita da Why Call It Anything, primo album di inediti dopo ben tre lustri, con la band di nuovo al completo.
Formatisi nel 1981 a Middleton (cittadina posta a sei miglia a nord di Manchester) dalle ceneri di alcune band locali, nello stesso anno i Camaleonti d'Inghilterra pubblicarono il loro primo pezzo ufficiale, il singolo da battaglia In Shreds (che verrà riproposto nel secondo LP, What Does It Mean, Basically?).
Dopo aver trovato un supporto finanziario nell’etichetta Statik (che cominciò non molto dopo a creare dei problemi al gruppo) i quattro raccolsero alcune idee e appunti per poi svilupparli definitivamente ai Cargo Studios, dove qualche anno prima avevano registrato del materiale i Joy Division e altri gruppi della Factory. Steve Lillywhite, che aveva già lavorato con la band per The Fun And The Bellows (raccolta di registrazioni antecedenti Script Of The Bridge, tra le quali anche alcuni versioni di brani che poi vennero rimaneggiate proprio per esso), avrebbe dovuto forgiare il suono dell'album ma poi optò per collaborare di nuovo con gli U2 per War, dopo Boy e October.
Spesso accostati alla band di Bono e agli Echo & The Bunnymen, i Chameleons avevano l’ingenua energia e la profonda spiritualità dei quattro irlandesi, con un approccio però più isolazionista, e mostravano una certa fascinazione per la psichedelia come il gruppo di Liverpool, rendendola però più liquida, eterea. Insomma, per dirla ironicamente, avevano tutte le carte in regola per non essere compresi ed essere trascurati, nonostante un sound che oggi definiremmo strepitoso: un miracolo sonoro che spingeva il post-punk all’interno di scenari epici, introspettivi e insieme metropolitani. Uno degli apici musicali degli anni Ottanta, un viaggio da brivido che partiva dal punk (vedi il primo stentoreo atto Don’t Fall) per perderne man mano ogni ruvidezza e conservarne solo la rabbiosa vitalità, fino a spingersi ancora più in là, sul ciglio di un baratro buio riempito da riverberi celestiali, immaginando magnifiche atmosfere dream pop.
Here Today (i Comsat Angels all’inferno) e Monkeyland (gli U2 in un paradiso illusorio), desolate visioni cariche di sgomento e afflizione, cominciano a indicare la via di Script Of The Bridge. Echi imperiosi e angelici di corde vengono imprigionati dentro asfissianti schemi ritmici ad orologeria, finché sopraggiungono break atmosferici e cupe aperture. Second Skin, a cavallo di una batteria che incede affannata ma sicura e affilata e di diligenti intrecci e contrappunti geometrici, si lascia morire sotto le esalazioni gelide della tastiera. A questo punto è più chiara la “missione” dei Chameleons, le loro intenzioni, o più semplicemente, la visionarietà e l’istinto naturale che li ha portati a delineare la propria cifra stilistica. Il cuore dell’album è Less Than Human, posta guarda caso più o meno a metà scaletta: una marcia dai toni crepuscolari, sempre contraddistinta da strutture quadrate e ipnotiche i cui spigoli sono smussati dai dolci riverberi delle chitarre.
Gli scozzesi Lowlife partiranno da questo punto per sviluppare atmosfere ancora più lugubri. La solitudine dell’uomo camaleontico, sconvolto da questa apocalisse dell'anima, indeciso tra la reazione e la rassegnazione, ora assume un significato quasi eroico. Le liriche sono semplici ma efficacissime: “Avrò pianto migliaia di volte, sarò morto migliaia di volte, sentendomi meno che umano negli occhi di Dio, suppongo di essere meno che umano negli occhi di Dio”.
Mark Burgess riesce a trattare di temi dolorosi con toni sia severi che colloquiali, è scaltro uomo della strada dalla filosofia spicciola e dall’ugola possente ma anche giovane sensibile e fragile. Nel suo isolamento c’è la consapevolezza della inevitabile sconfitta dell'uomo di fronte al destino e l'inquietudine che ne deriva. Ma si percepisce anche una grande brama di vivere e una curiosità incrollabile.
Anche Pleasure And Pain si aggira dentro claustrofobici, spigolosi labirinti post-punk/darkwave dove risuonano esotiche melodie (così come accadrà nella battagliera Paper Tigers) per poi trovare la via d’uscita in un finale bucolico e sognante degno dei Sad Lovers & Giants, che sarà lontanamente richiamato dalla conclusiva View From A Hill.
C’è spazio anche per brani meno tenebrosi, più vitali anche se sempre alquanto malinconici: è il caso di Up The Down Escalator, Thursday’s Child e As High As You Can Go.
A Person Isn’t Safe Anywhere These Days è una cavalcata scura (sono degli assalitori misteriosi quelli dei versi di Burgess, oppure sono allucinazioni e paranoie che emergono dal fondo della psiche?) fatta di potenti giri scanditi con precisione millimetrica e zampate accecanti che finirà per sciogliersi in una coda dalla placida atmosfera sacrale, turbata solamente dai tamburi tribaloidi e dal basso quasi dubbeggiante. Nella sopraccitata View From The Hill l’immaginazione si mescola ai ricordi, Visioni sfocate si liquefanno dentro un sogno vivido, ci si chiede se ciò che scorgiamo o sentiamo sia vero o l’ennesima illusione, aspettando tempi migliori per tornare alla vita (“Debating what is and isn't there, Who cares…You wait until your time comes round again”). Nel pezzo non troviamo più solamente dei semplici prodromi del dream pop. Suoni e linee musicali provengono da un mondo non più fisico.
Il pezzo è diviso in due parti, coerenti tra di loro ma con un loro precisa, distinta identità. Se la prima ipnotizza dolcemente, la seconda parte (solo strumentale) ammalia con melodie estatiche traghettandoci in una dimensione più che mai introspettiva. Le plettrate secche seguono il disciplinato incedere dei tamburi, mentre le corde in delay disegnano struggenti paesaggi aurorali riflessi in sorgenti limpide.
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