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6/10

Goblin Rebirth

Goblin Rebirth

I bet my two cents! Nemmeno fossero inespugnabili forzieri. Due spiccioli, proprio, e su cosa? Su una banda di (ex) amici divisi dalle royalties – l’aggravante dei futili motivi la desumete voi. Ci si guarda torvi e non ci si fa remore a sbranarsi attorno al brand Goblin, le cui traversie si estendono ormai lungo segmenti temporali da soap opera americana. Nulla più rimane della gloriosa formazione originaria, quella di “Profondo Rosso” e del “Bagarozzo”, di “Suspiria” e di “Roller”. Innumerevoli, in compenso, le variazioni su tema: l’attualità ci tramanda quella personalizzata, di Claudio Simonetti (poca roba davvero), un improbabile refresh del moniker originale (che ha partorito, lo scorso marzo, “Four Of A Kind”: suonano Fabio Pignatelli al basso, Agostino Marangolo alla batteria, Massimo Morante alla chitarra e Maurizio Guerini alle tastiere) e, naturalmente, i qui presenti Goblin Rebirth, ovvero la stessa sezione ritmica dei Goblin con, in più, le due tastiere di Aidan Zammit e Danilo Cherni e le chitarre di Giacomo Anselmi.

Pausa. Respiro. Non miriamo a convincere nessuno, tantomeno oggi, che per un po’ di attenzione supplementare si ucciderebbe, per un briciolo di ricezione critica si rinnegherebbero croci e genitori. Troppo densa e complessa è anche la storia recente, perché possa trovare, tra queste righe, una buona risonanza, una giustizia degna di questo nome. Chi è affezionato ai Goblin degli anni ’70 seguirà, parimenti, i “nuovi” Goblin, Simonetti e i Goblin Rebirth: qualcuno fra i meno tenaci deciderà in quale progetto impegnare oculatamente anima e corpo; giovani e tiepidi non proveranno neppure ad imbarcarsi in un’impresa destinata, prima ancora dei crismi dell’inaugurazione, alla dispersività. È, quest’ultima, una posizione tranchant, ma del tutto comprensibile: una critica forte, per quanto generalizzata, della quale temiamo queste rispettabili cariatidi non tengano mai sufficientemente conto e che, a conti fatti, è la sola, atavica pecca di resurrezioni ed ammodernamenti sullo stile di Goblin Rebirth.

Il disco, ci si intenda, è dignitosissimo. Classico quanto basta per non deludere chi si aspetta di risentire, ancora oggi, brandelli di “Deep Shadows” e “Tenebre” (il vocoder e gli insistiti passaggi di semitoni di “Evil In The Machine”, con una produzione che mette contemporaneamente gli occhi sui King Crimson di “Epitaph” e “Level Five”: 1969 e 2003 a confronto, perfetto!): qualche virtuosismo è di troppo (alcuni passaggi in tapping di “Book Of Skulls”, da guitar hero prog metal, ne sciupano la discreta texture goth), qualche autocitazione smaccata fino alla sfacciataggine (l’organo di “Requiem For X” non ha bisogno di presentazione alcuna); altrove si azzarda qualche numero stilisticamente più ardito (“Dark Bolero”, dove il basso di Pignatelli fraseggia e conduce ben più che ritmare semplicemente, si lascia ascoltare e riascoltare). Nessuna sorpresa, ovviamente: solo mestiere e – benvenuta! – sobrietà, anche nella rievocazione di quel nobile passato che dall’alto sempre si impone (“Back In ‘74”, specialmente per lo stacco centrale jazz rock, à la Perigeo, riduce ad un nulla gli sforzi e gli smarcamenti del neo-prog).

Si chiude con la complessa “Rebirth”, il romantico cappello dal cilindro tenuto a battezzo da un solismo che è, insieme, maestria descrittiva e zavorra accademica. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio: e questa è una riconferma, non una rinascita.

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