Goblin Rebirth
Goblin Rebirth
I bet my two cents! Nemmeno fossero inespugnabili forzieri. Due spiccioli, proprio, e su cosa? Su una banda di (ex) amici divisi dalle royalties laggravante dei futili motivi la desumete voi. Ci si guarda torvi e non ci si fa remore a sbranarsi attorno al brand Goblin, le cui traversie si estendono ormai lungo segmenti temporali da soap opera americana. Nulla più rimane della gloriosa formazione originaria, quella di Profondo Rosso e del Bagarozzo, di Suspiria e di Roller. Innumerevoli, in compenso, le variazioni su tema: lattualità ci tramanda quella personalizzata, di Claudio Simonetti (poca roba davvero), un improbabile refresh del moniker originale (che ha partorito, lo scorso marzo, Four Of A Kind: suonano Fabio Pignatelli al basso, Agostino Marangolo alla batteria, Massimo Morante alla chitarra e Maurizio Guerini alle tastiere) e, naturalmente, i qui presenti Goblin Rebirth, ovvero la stessa sezione ritmica dei Goblin con, in più, le due tastiere di Aidan Zammit e Danilo Cherni e le chitarre di Giacomo Anselmi.
Pausa. Respiro. Non miriamo a convincere nessuno, tantomeno oggi, che per un po di attenzione supplementare si ucciderebbe, per un briciolo di ricezione critica si rinnegherebbero croci e genitori. Troppo densa e complessa è anche la storia recente, perché possa trovare, tra queste righe, una buona risonanza, una giustizia degna di questo nome. Chi è affezionato ai Goblin degli anni 70 seguirà, parimenti, i nuovi Goblin, Simonetti e i Goblin Rebirth: qualcuno fra i meno tenaci deciderà in quale progetto impegnare oculatamente anima e corpo; giovani e tiepidi non proveranno neppure ad imbarcarsi in unimpresa destinata, prima ancora dei crismi dellinaugurazione, alla dispersività. È, questultima, una posizione tranchant, ma del tutto comprensibile: una critica forte, per quanto generalizzata, della quale temiamo queste rispettabili cariatidi non tengano mai sufficientemente conto e che, a conti fatti, è la sola, atavica pecca di resurrezioni ed ammodernamenti sullo stile di Goblin Rebirth.
Il disco, ci si intenda, è dignitosissimo. Classico quanto basta per non deludere chi si aspetta di risentire, ancora oggi, brandelli di Deep Shadows e Tenebre (il vocoder e gli insistiti passaggi di semitoni di Evil In The Machine, con una produzione che mette contemporaneamente gli occhi sui King Crimson di Epitaph e Level Five: 1969 e 2003 a confronto, perfetto!): qualche virtuosismo è di troppo (alcuni passaggi in tapping di Book Of Skulls, da guitar hero prog metal, ne sciupano la discreta texture goth), qualche autocitazione smaccata fino alla sfacciataggine (lorgano di Requiem For X non ha bisogno di presentazione alcuna); altrove si azzarda qualche numero stilisticamente più ardito (Dark Bolero, dove il basso di Pignatelli fraseggia e conduce ben più che ritmare semplicemente, si lascia ascoltare e riascoltare). Nessuna sorpresa, ovviamente: solo mestiere e benvenuta! sobrietà, anche nella rievocazione di quel nobile passato che dallalto sempre si impone (Back In 74, specialmente per lo stacco centrale jazz rock, à la Perigeo, riduce ad un nulla gli sforzi e gli smarcamenti del neo-prog).
Si chiude con la complessa Rebirth, il romantico cappello dal cilindro tenuto a battezzo da un solismo che è, insieme, maestria descrittiva e zavorra accademica. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio: e questa è una riconferma, non una rinascita.
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