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R Recensione

5/10

Goblin Cock

Roses On The Piano

Tra le molteplici manifestazioni crowiane che hanno trovato posto nelle oltre cinque ore di materiale inedito composto nel corso del 2018, in qualità di artist-in-residence della Joyful Noise Recordings, non potevano certo mancare i Goblin Cock, che dell’ex ragazzotto di San Diego, California sono forse il progetto attuale più scanzonato e autoparodistico. Basti la presentazione ufficiale di “Roses On The Piano” (sottotitolo: “an album of cover songs for the discriminating palette”) fornita sul sito dell’etichetta: l’alter ego Lord Phallus, accattivato da alcuni pezzi casualmente intercettati per radio durante gli spostamenti on the road, ha deciso di restituirne una propria personalissima versione. Nessun seguito ufficiale del buon “Necronomidonkeykongimicon” (2016), dunque: questo è puro cazzeggio, rivendicato fino in fondo con orgoglio.

Un’occasione persa più che una scusa per divertirsi, ci si ritrova a pensare più volte durante l’ascolto: non perché si debba coltivare a tutti i costi la serietà, ma perché operazioni così smaccatamente canzonatorie lasciano oramai il tempo che trovano. Anche la scelta dei brani, come da copione, non può non sollevare qualche perplessità. Si pensi alla sola sezione centrale: al folk arcaico e umbratile della “Crescent Noon” dei Carpenters (da “Close To You”, 1970), resa in una fedele sciarada chiaroscurale, seguono la pentolaccia pop punk di “Janitor” (l’originale è contenuto nel s/t dei Suburban Lawns, anno di grazia 1981), l’AOR sotto steroidi di “Summer Breeze” (rivisitazione della hit contenuta nell’omonimo disco dei Seals and Crofts, 1972) e il proto-thrash di “Blow Up” (chicca da “In A Roman Mood”, 1981, primo e unico disco lungo degli Human Sexual Response). Saranno anche i pezzi che piacciono a Rob Crow, insomma, ma il principio è quello di caciara e buona la prima: anche a costo di estrarre dal cilindro autentici gioielli trash (da non credere la trasformazione robo-heavy a cui va incontro il solare r’n’b di “I Love Your Smile”, singolone di punta di “Inner Child” di Shanice, 1991), rispolverare pezzi d’artigianato di controcultura americana (“Porpoise Song” è tratta dalla colonna sonora di Head interpretata dai Monkees, 1968) od omaggiare degli insospettabili con un dinoccolato stoner a due velocità (la “Head Over Heels” dei Tears For Fears di “Songs From The Big Chair”, 1985).

Fatto sta che, esaurita già a metà del primo ascolto l’attonita sorpresa dell’impatto, quello che rimane è un disco brutto, noioso e superfluo. Che andasse inteso o meno come tale, se ne poteva fare tranquillamente a meno.

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