Orthodox
Sentencia
Fisso questa pagina bianca, la barretta che lampeggia, lo stereo nel frattempo acceso, senza sapere bene cosa scrivere, e mi mordo la lingua. Dovrei, in realtà, morsicarla due volte, non per innato senso sadomasochistico che, tuttavia, esce talvolta prepotente in forme sospette, ma per una duplice, grave dimenticanza del sottoscritto, ora in estrema difficoltà per quanto riguarda questo Sentencia degli ispanici Orthodox. La prima, certamente più importante, è non avere mai avuto il tempo di parlarvi, due anni fa orsono, di un disco metal che sarebbe piaciuto trasversalmente a chi costruisce are crisoelefantine anche di fronte al peggiore chitarrista psych della storia e, soprattutto, a tutti quelli che sdegnano con forza questorribile scenario. Amanecer En Puerta Oscura, sette movimenti strumentali che mettevano daccordo Sleep con Sun Ra, OM con Sunn O)) e Miles Davis. Un estenuante pellegrinaggio sotto il sole del drone più abbacinante, sotto folate di sax e clarinetti, frammezzo a costoni di roccia magmatica e granitica. Non necessariamente bello, magari, sicuramente affascinante, quasi come le tonache druidiche che celavano, al mondo, i volti dei due di ex machina, novelli OMalley e Anderson con molti più concetti in corpo e molto meno appeal intellettual-chic da svendere su durate di venti minuti (ad maiora).
Quasi a ribadire che nulla, naturalmente, rimane così comè, nemmeno quando sembra così ovvio e scontato, ecco giungere, allora, lagognato (?) seguito qui trattato, a completare la trilogia mistica-ma-di-grande-sostanza inaugurata nel 2006 con Gran Poder. Fascinosi, oscuri, sinuosi ed eleganti, finalmente gli Orthodox riescono ad erigere un solemne triduo come si deve. Tre, come i brani di Sentencia, ma tre anche come il numero dei dischi incisi e, non da sottovalutare, tre come il numero di persone del dogma della Trinità. Considerato lattaccamento quasi essoterico del duo per la Cristianità (e, più sui generis, il rapporto col divino) rivista in maniera, se non pagana, certo più misterica i titoli non lasciano scampo ad interpretazioni, sebbene si dicano agnostici il caso non è più tale. Quando, infine, si scopre che, per questo giro, hanno deciso di lasciare esprimere la propria musica anche attraverso la voce, la curiosità ha ormai raggiunto livelli di guardia considerevoli.
Laltro madornale errore, lavrete capito, entra in gioco ora. Abbiamo davanti, aldilà delle condivisibili sperimentazioni collettive, un lavoro sostanzialmente brutto, pedante, privo dello spessore che tanto aveva reso seducente il suo predecessore. La candela brucia, giocoforza, solo sul monolite centrale di Ascension, ventisette minuti circa ostici da legittimare non tanto per durata o complessità, quanto per effettiva densità di idee che, in più punti, scarseggiano. Il pianoforte, strimpellato, distonico, solistico, arrancante, passionale, è lunico legante capace di raggruppare una lunga litania, lacerata prima da una vera e propria geremiade spesso condotta al limite dellurlo più straziante, poi rinfocolata da una lunga coda free jazz per sax, chitarre, basso e clarinetti a lenta carburazione, abbondante di ottimi spunti che, ciò nonostante, non riescono a trovare forma compiuta e si ammassano, luno sopra laltro, come tanti bozzetti dallandatura flessuosa.
Inevitabilmente, la stroncatura riservata al gruppo toglierà qualsiasi voglia, agli esterni, di ripescare i meritevoli, precedenti capitoli, confinando perciò gli Orthodox in una nicchia che, per una prova andata a male, certo non meritano. È magra consolazione poter elogiare i due estremi, Marcia De La Santa Sangre col suo avanzare da processione castigliana (arpeggi acustici, tromba morriconiana e sombrero calato sulla fronte) e ...Y La Muerte No Tendra Dominio speriamo! , tetra e lugubre come i Goblin più fuzz e morbosamente legati allHammond, considerando che raggiungono appena i sette minuti se sommate assieme.
Ma, lo ammetto senza problemi, qui di Sentencia ce n'è una sola: mea culpa!
Tweet