Afterhours
Non è per sempre
La prima volta che vidi gli Afterhours dal vivo, fu nel concerto gratuito al centrale del tennis di Roma. Era il 2004 e l’album di allora era “Quello che non c’è”. Non conoscevo molto di loro, ma quello che avevo ascoltato mi aveva segnato. Lo stadio era mezzo vuoto (impensabile ora) anche se avevano il loro seguito, io non ne facevo parte, ma vedere Manuel Agnelli sul palco ipnotizzare tutti, con un’esecuzione micidiale di “Non si esce vivi dagli anni ‘80”, mi fece provare qualcosa di indescrivibile. Rimasi il tempo di ascoltare “Quello che non c’è” e poi quasi scappai.
Da quel giorno non so a quanti altri concerti ho partecipato, ed ormai conosco ogni pezzo del gruppo milanese.
“Non è per sempre” non è sicuramente il loro capolavoro, titolo che spetta senza dubbio a “Quello che non c’è”, ma rappresenta un passo importante per Manuel e soci. La band milanese al tempo, 1999, aveva alle spalle il botto underground rappresentato da “Hai paura del buio ?”, che si era anche timidamente affacciato nel mainstream con la gemma pop “Voglio una pelle splendida”. “Non è per sempre”, con la sua miscela di ballate palesemente pop alternate a graffianti cavalcate rock, riuscì nel difficile intento di rafforzare la posizione della band nel panorama indie nazionale, concedendo loro occasionali scorribande nel circuito mainstream (aspetto che la band svilupperà in futuro).
Se “Hai paura del buio ?”, era stato l’elogio definitivo ai Velvet Underground, “Non è per sempre” è l’album della liberazione da certe paranoie, in favore di veri e propri inni liberatori, possibilmente da cantare insieme ad un pubblico vero e proprio protagonista dell’evento live, in quest’ottica “Non è per sempre” può essere visto come l’album Fugazi degli Afterhours.
Spariscono le asprezze punk del passato a favore di un recupero di certe radici, inevitabili per chi è cresciuto musicalmente negli anni ’80. Il disco si apre scuro, come si era chiuso il precedente, con “Milano circonvallazione est” , una specie di “State trooper” cibernetica (non a caso omaggiata qualche anno fa dagli stessi Afterhours) per rischiararsi completamente con la solare ballata “Non è per sempre”, dove un Agnelli dolce come non mai sembra rassicurarsi e rassicurarci da tutti i possibili cattivi pensieri.
“Le verità che ricordavo” rappresenta perfettamente gli inni da stadio di cui parlavamo poco fa, sembra vederlo Manuel agitarsi sul palco come un novello Guy Picciotto, mentre la folla canta a squarciagola questa sequenza di slogan contro il perbenismo. “Oppio”riporta la band milanese nei territori psichedelici che tanto avevano percorso negli esordi, mentre la successiva “Non si esce vivi dagli anni ‘80” ci riporta nella folla urlante dello stadio con un testo se possibile ancora più diretto.
“Baby fiducia” e “Bianca” rappresentano una novità nelle sonorità della band, sembrano le prove di una possibile fuga cantautorale di Manuel mentre “Tutto fa un po’ male” è Afterhours’s sound al cento per cento.
In “Superenalotto” e “L’Estatè” troviamo invece timidi segni di quello che sarà il futuro immediato degli Afterhours (“Quello che non c’è”) soprattutto nelle trame chitarristiche di Iriondo.
Proprio in fondo al disco troviamo “Cose semplici e banali”, altro perfetto esempio di panegirico rock e vera e propria scintilla live in quelle rare volte in cui Agnelli e soci la presentano nei loro show.
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