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R Recensione

7/10

Calibro 35

Said O.S.T.

In questa terra di nessuno, dimenticata da Dio e dai camionisti, fa freddo. Un freddo che non passa nemmeno ad ingoiarsi trentuno litri di benzina e darsi fuoco. È il freddo della periferia urbana, della periferia umana. Di storie e vicende che nessuno ha la pazienza di raccontare e il coraggio di farsi raccontare. Di freak e sbandati, corpi e volti senza un nome. E un cellulare. Voi non siete rimasti fuori tutta una notte, senza neanche il conforto di una parola, della silhouette di una puttana che mugola in un letto morbido e caldo, o di una canna. O delle tre cose assieme. La sola cosa di cui riesco a definire i contorni è questo matto, questo irlandese che dà dello zingaro al marocchino che mi ha portato dietro. Questo scemo, insomma, se le va cercando. Ho capito che fa freddo, ma pisciarmi addosso mi sembra un po’ troppo. Una forzatura. Un’esagerazione. Come se la droga non potesse provare dei sentimenti. Ho visto più vene io che i medici di mezzo mondo, non credete, e so cosa vi attira, cosa vi spinge a delinquere e a spaccarvi bottiglie in faccia, a fornicare con due milf sudamericane al cospetto di una moglie derelitta e demente, a giocare sul cavallo perdente per farlo perdere. Anche se costretta in questo secchio, con un dito di acqua sporca a ricoprirmi e una pisciata diluita che sembra non finire più. Sì, sono volgare. Sì, non so esprimermi. Sì, dovrei smetterla. Non ho fatto le scuole dell’obbligo, io. Non portavo mica a casa ottimi voti… io.

A parte l’acqua, posso dire di avere avuto le stesse esperienze e le stesse tue sensazioni. Certo, in quella terra di musi gialli e pallosi, di cervelloni al sake e dita costantemente lerce di pesce crudo è facile cercare emozioni oltre la linea del bene. Io avevo solo una bella voce, ed una bella presenza. E fu grazie a queste mie fortune che il buffo e muscoloso compaesano mi notò e mi fece sua. Anche più volte al giorno. Ed oggi sono qui, in questa squallida camera d’albergo ad ascoltare musica nippop sparata nelle mie cuffie e mangiare pizza fredda e coca cola, cercando di non pensare al nauseabondo odore di sangue che proviene dal bagno. Non saprei che nome dare a questa storia, ma Said aveva certamente tutti i titoli a posto per farmi perdere la testa. Batte forte il tempo e risuonano le trombe, le corde elettriche sono toccate con veemenza e sporcate con malizia. Quando poi tocca i tasti bianchi e neri i miei organi sobbalzano come tante bolle di magma incandescente. Ho una bella voce, ma non me lo dice mai nessuno. A meno che non devo salvarmi il culo o salvare il vostro di culo. E si, perché solitamente sono altre le cose che mi dite. Sei una troia, me lo gridano spesso, e probabilmente hanno ragione, ma pure tu non sei certo uno stinco di santo, sei un poco di buono. Ma cosa volete,  è questo quello che cerco in un uomo, ed è per questo che alla fine ho deciso di seguire un ragazzo della strada, sporco, stronzo e cattivo, piuttosto che quell’occhialuto e mezzo stempiato avvocatello che piaceva tanto a papà. Che voce, che carisma. E che importa se parli come un vecchio corvo cleptomane. Quando sento quella voce so che anche se tu leggessi la lista delle lavanderie a gettoni dalla pagine gialle mi faresti reidratare alla grande le labbra screpolate.

Alla radio, comunque, parla gente anche più sboccata di me, e pur immersa in quest’acqua putrida, riesco a sentirla distintamente. Trogloditi che se ne approfittano del concetto di “diffusione” per rendere partecipe delle loro inutili imprese chi meno lo vuole. Ficcandoci in mezzo qualche concetto poco elegante, magari, lineamenti di critica cinematografica applicata al vuoto pneumatico. E poi, ecco qui, mi tocca sorbirmi pure i piagnucolosi sensibili alle offese, gente che si spreme dentro i fazzoletti mentre fa benzina. “Said” l’ho visto anch’io, sapete, quando ancora non avevano deciso di farmi fare un bagno supplementare, ed effettivamente è poca roba: come se bastassero il recitar dirigendo, due negri e quattro musi gialli a fare Quentin Di Leo. Sbruffoncello, il registucolo che si sta ancora sciogliendo di fronte ai fanali del suo suv. Quella chitarra acustica, intanto, procede, e disegna i plasma della città, ora, così lontana: il monologo di un insonne con un lampione e i suoi barbiturici. Un quadro onirico e, per certi versi, idilliaco. Irreale, in una tale notte di violenza, con punture di acido ed implacabili colpi in testa (quella bacchetta, Gesù, come la grandine sul tergicristallo del coglione). Avverto il sentore di una lotta senza esclusione di colpi in arrivo. La fremente attesa di una pioggia di sangue… magari dal Sol Levante: una stasi che pizzica come le corde di un violino. Per arrivare a possedermi fareste di tutto, sebbene sappiate benissimo che non ho due gambe, un buco e quattro peli attorno. Lo sguardo famelico di chi si prende Blue e il suo gatto morto, con la sensualità rabberciata di chi fuma duecento sigarette a notte nei night, respirando librerie psichedeliche, languidi slide su sei corde e melodismi in loop, è lo stesso di chi si spara una pera o tira una striscia. Lo stesso di chi concentra risse in cinquantasei secondi (con groove, però, o l’hardcore va a morire), salvo poi scappare se arrivano gli sbirri… come se i colpi degli sbirri potessero farvi – e farvi – qualcosa.

Tu con gli sbirri non ci vai d’accordo, lo so, e ancora una volta registro un punto in comune con te. Certo quando ti vedo dare la testa a quei ragazzoni tutto muscoli e rime, gente che non porterebbe mai la camicia nei pantaloni, mi fai arrapare ancora di più, perché un dissing puntando una calibro 35 arrapa assai, arrapa di nuovo, come un remix di un pezzo che ascoltavo da adolescente, quando l’odore dei maschi cominciava ad essermi familiare. Don Vito non mi è mai piaciuto, l’ho sempre considerato una persona sgradevole, un essere spregevole, oltre che un capo ridicolo, come dite voi, uno “uappo di caltone”, niente, non ce la faccio proprio a dirlo, ma mi avete capito. Fai ridere, ti fai ascoltare, ma sei fuori luogo in questa storia dove terrore, tristezza e erotismo sono le cose che ti aspetti di sentire, e che in questa storia hanno sempre funzionato. Non mi aspettavo però che anche Kassim mi deludesse, e quando ho udito quello sparo provenire dal bagno, sebbene filtrato dalle mie grosse cuffie, ho capito che Said si meritava solo un finale degno della sua ingordigia. Lento, triste, delirante, portatore di giustizia e fratellanza, questa volta quella vera. Quella che tu, Kassim, hai barattato con la fame dei soldi e il potere e che un colpo di pistola dal grosso calibro ha benedetto, non fallendo il colpo, come del resto mai ha fatto nel corso della sua storia. Un’arma infallibile, almeno fino ad oggi.

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