Afterhours
Padania
Bye Bye Universal, etichette indipendenti, compilation ibride di paesi (sur)reali, stasi creativa: Germi è la nuova ragione sociale degli Afterhours; ed una vecchia (ma quanto mai aggiornata) idea di come fare rock 'a casa nostra', senza tradire le attese - anzi, riuscendo ancora una volta a stupire.
A quattro anni dal poco ispirato (eufemismo, ça va sans dire) e disomogeneo “I Milanesi ammazzano il sabato”, passando per l’esperienza sanremese traboccante di senso civile de “Il Paese è reale” e le note trasferte statunitensi, Manuel Agnelli e compagni ora autoproducono, con libertà e pienezza d’intenti (ad aiutarli Tommaso Colliva, in produzione) il decimo tassello del loro lungo percorso artistico: “Padania”.
Situazione politica odierna a parte, il nuovo dramma degli Afterhours si snoda, insinuandosi sottopelle con intensità pervasiva, lungo i solchi dell’arrivismo personale: meta ed eldorado rassomigliante a tutto, tranne a se stessi. Il sociale/territoriale come ancoraggio e pretesto per approdi materiali, ma che invero è solo palliativo per una perdita di cognizione totale della umana condizione, esperita in senso comune o personale, che si annida nell’intreccio dello scorrere muto, tiranno, del tempo. Responsabilità collettive o personali che siano – lo sfuggire incessante dalla fragilità umana, dalla morte; fino a domandarsi se <<ci sarà vita, là dove questa morte finirà?>> - la reale dittatura contro la quale, allo stremo, lottiamo è uno stato ‘moloch’ della mente, senza cori ne bandiere: la padania del nostro agire quotidiano, e del disorientamento esistenziale di cui non ci curiamo.
Non è mai cosa facile parlare di sé mantenendo, contemporaneamente, una lucidità totale su ciò che vi è intorno; e, specialmente, dopo che in passato uno come Agnelli aveva, agli estremi, forzato una necessità solipsistica al limite del narcisistico, fatta di sguardi sull’io come unico oggetto d’amore, via un eloquio idiosincratico ossessivo e penetrante, capace di donare al discorso un’aura da incessante monologo interiore (“Ballate per piccole iene” esemplifica il concetto). Ma, immediatamente prima della partecipazione sanremese, ecco nuove prospettive a ridar linfa al progetto: il ruolo ‘politico’ della musica, costruire qualcosa che serva tanto alla scena indipendente italiana, quanto nel contribuire ad una reazione di senso civico/critico unanime. Riconnettersi al reale e tentando, senza la pretesa di portare a casa il risultato, di smuovere un po’ le acque della frustrazione nazionalpopolare.
In “Padania” critica sociale (<<terra meravigliosa, brutto paese>>), dialogo interno (<<trova un destino che ti porti con sé, prima che quello di un altro trovi te>>), angoscia esistenziale (<<ho già un anno in più, un se in più>>) si uniscono e vengono declinati in ballate dal respiro più ‘classico’ (della loro produzione: “Padania”, “Nostro anche se ci fa male”, “La terra promessa si scioglie di colpo”), in una sezione centrale free-rock dall’impostazione vagamente ‘dada’ (ma compressa da un sound dall’attitudine assolutamente easy listening) o nello sperimentalismo vocale/musicale dallo spirito intrepido - ma non così inaccessibile (“Metamorfosi”/”Iceberg”). Ed ecco che i pezzi più pop di oggi possiedono la lucidità analitica di un tempo, insieme alla libertà ubriaca, anche consapevole, del presente. Meraviglie, gemme vere, come “Costruire per distruggere”, violenta nel concetto quanto dolce nell’esposizione; “Nostro anche se ci fa male”, livida e fragile come nelle ballate più ispirate di “Quello che non c’è”; la desolante alienazione (<<e non ricordi cos’è che vuoi>>) della title track, che dipinge il nulla esattamente come appare. O, infine, la commovente (e splendida) “La terra promessa si scioglie di colpo”, pianoforte e archi, atto finale di estrema e dolorosa consapevolezza (<<ho una cosa dentro, è uno stato nella mente e già lo so, che col tempo prima o poi io mi ci ammalerò>>).
E Agnelli, qui - come mai prima a livello lirico -, pare essersi scrollato di dosso buona parte dell’investimento libidico riversato su se stesso (e sul proprio regno): pur mantenendo un taglio stilistico autoreferenziale, i testi del nuovo disco lasciano trasparire chiarezza comunicativa e ampia ‘generalizzabilità’ concettuale. Metodo induttivo quindi, che sicuramente ha rinvigorito e ampliato la portata del suo, personalissimo, verbo (caduto mai così in basso come ne “I milanesi ammazzano il sabato”). Oggi, il frontman afferma di trovare maggiore attinenza vocale con Diamanda Galas rispetto all’inarrivabile Stratos (che lui stesso ha interpretato in “Lavorare con lentezza”, pellicola del 2004 di Guido Chiesa), eppure l’incipit di “Metamorfosi” ha inequivocabile matrice Area, per lo meno prima di esplodere granitica tra fischi e clangori distorti (è che Iriondo gli strumenti se li costruisce in casa) su cui lui adagia un’interpretazione canora tirata, forzata, espressiva in senso aggressivo. Mostrando impatti di drammaticità, fatalismo e collasso esistenziale che uno come Vic Chesnutt, ad esempio, sapeva (ahinoi) restituire al meglio.
“Terra di nessuno” è processo mortifero e virulento (qualcuno ha detto “Germi”?) in wall of sound, vuoti ed ipertoni, mentre “La tempesta è in arrivo”, pur rispettando nella sostanza i dettami del concept (sull’identità, non solo), adotta una forma espositiva banalizzata – ma, comunque, funzionale al sostrato ‘emotivo’ del disco. E nell’epoca della news correlata alla réclame, ecco che i “Messaggio promozionale” 1 e 2 suonano, in ordine, come divertissement ‘pedagogico’ e brevetto per affaire post capitalistici.
Nel mezzo, come nella realtà, impazza la furia rabbiosa di chi cerca salvezza per sé e per gli altri: “Spreca una vita” è una scudisciata formativa (<<oh piccino: diventa ciò che sei>>). “Fosforo e blu” è puro dna “Germi”: sbraitata, satura, affoga nel noise rock bruto (le chitarre di Ciccarelli à la Albini) e nella rabbia. Rabbia mal incanalata, invece, nei corto circuiti di “Io so chi sono” (identità deturpate dal consumismo, e bla bla bla) e soprattutto nel crossover bruttino di “Giù nei tuoi occhi”, sperimentazione non troppo riuscita a livello tanto interpretativo quanto compositivo.
Il (noise-blues-alt) rock di “Ci sarà una bella luce”, sghemba e stonata come un “Trout Mask Replica” qualsiasi (e gelida quando la tensione è insostenibile), sa di cinismo dei tempi moderni; la velocità come cura e distrattore che inghiotte il pensiero e appaga l’apparenza. E poi una luce, una nuova consapevolezza delle finalità (<<se la preghiera che fa il prete, che tu possa aver dei figli, figli diavoli e poi>>) che è gestalt improvvisa, illuminazione sul reale, che conduce sì ad un’esperienza di sé più a fuoco (<<tutto non è stato scritto>>), ma anche ad una psicosi che manda tutto all’aria (<<oh Lazzaro, oh perché vuoi tornare a me?>>; <<pensa ai vivi e non pensar più al perché>>).
Disco presuntuoso “Padania”, per concludere. Presuntuoso negli squilibri vocali delle declamazioni di Manuel Agnelli, nel suo voler assurgere a ruolo di educatore della società a partire dall’infanzia (vedi “Spreca una vita” e il finale di “Io so chi sono”), non moralizzandola, ma responsabilizzandola e scuotendola. Presuntuoso nel ritorno ingombrante di Xabier Iriondo, gran cerimoniere del distorto, tangibile e anzi violento, spropositato per tensione ed estro. Presuntuoso nelle troppe libertà di Giorgio Prette, che si denuda per seguire la sua pulsione più efferata: picchiare pelli senza ovatta (e giovando degli incastri di Dell'Era, e del suo basso dalla minor portata espressiva rispetto alla precedente uscita). Presuntuoso negli archi di Rodrigo D’Erasmo, che inseguono farfalle in un prato per poi sprofondare in un buco nero di catrame e lava, senza apparente soluzione di continuità. Presuntuoso perché anarchico, quindi bellissimo. Anarchia d’intenti, vista l’autoproduzione totale; anarchia nelle azioni, vista l’indipendenza individuale nel processo compositivo. Anarchia di risultati, visto lo straniamento prodotto da un’estasi creativa lasciata libera di fluire.
Mettere a fuoco il nulla, e miracolosamente riuscirci.
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