Captain Mantell
Bliss
Davanti ad un jukebox, per chi se li ricorda, basta avere una monetina: ci penserà la macchina, poi, a suonare la musica che volete, qualora lo vorrete, nella misura che vorrete. Equiparare ad un jukebox Bliss, quarta prova in studio dei Captain Mantell, guidati dalla voce e dalla chitarra di quel Tommaso Mantelli che il volgo ricorderà probabilmente come membro de Il Teatro Degli Orrori nel periodo del tour di A Sangue Freddo, è così semplice ed immediato da non poter non suscitare qualche dubbio nella mente di chi ascolta. E difatti. Non arriviamo a dire che la scoperta del blues abbia spostato gli equilibri nel power trio trevigiano che, pur ammantato di sintetiche stoffe, già nelle precedenti prove (la migliore, a giudizio di chi scrive, è Rest In Space, 2010) aveva dato testimonianza di relativa malleabilità stilistica. Cambiando passo ed approccio massimalista, tuttavia, cambiano anche i frutti: tanto che una scaletta come quella di Bliss, solo apparentemente convenzionale nella sua ricchezza, può venir sviscerata da varie angolazioni. Mancheranno o si aggiungeranno virgole e punti, ma di questo siamo convinti la sostanza delle considerazioni base rimarrà integra.
I primi ascolti, i più ingannevoli, spingono ad archiviare il disco nel capiente scatolone dello spaghetti rnr, una conformazione anarcoide che subisce il moltiplicarsi spontaneo di nuove leve attorno a quelli che, sostanzialmente, potremmo definire numi tutelari, padri putativi (dalle innumerevoli incarnazioni di Dome La Muerte e Andy MacFarlane in giù, per farla breve). The Ending Hour è un piacevole lento, carezzato dal violino di Nicola Manzan e dal placido sax di Sergio Pomante, come se ne scrivono a centinaia ogni anno in produzioni del genere: così gli arpeggi malinconici di First Easy Come Then Easy Go (ancora Manzan a curare larrangiamento), la maleducazione di maniera di Wait For The Rain (con un accenno di sviluppo per big band castrato da una durata, per una volta, troppo ridotta) e il didascalico inciso rockabilly di Dead Mans Hand (il saltabeccante requiem in memoria di Wild Bill Hickok). Limpressione si consolida a considerare lo spettro dazione su cui interviene Pomante, dotato di uno strumento in grado di fare la differenza (basta sentire il finale schiumante di Wont Stop), ma raramente messo in condizione di dominare la scena e sfruttato quasi esclusivamente come specchio melodico della chitarra, una sorta di basso alternativo (Love/Hate) senza lanima soul di Dana Colley (With My Mess Around).
Se questa criticità, a lungo andare, ha il suo peso e dovrà essere risolta in futuro, sempre che i Captain Mantell abbiano intenzione di voltare definitivamente le spalle agli Eighties elettronici, è pur vero che concedere tempo a Bliss ne fa crescere, lentamente ma regolarmente, le quotazioni. Ripartiamo da The Ending Hour, di cui si coglie e si apprezza lampio respiro cinematografico solo dopo una buona meditazione (bello lespediente camuffato, a tal proposito, delle strofe in 6/4: quando la tecnica cè, ma non si sente). Non è un unicum sacrificato allazzardo. Lo stesso schema si ripropone in una To Keep You In Me che ammorbidisce la vulgata dei De Curtis (quando la scuola dei Rosolina Mar non va in pensione ), acquista velocità in una Ugly Boy che sfrontatamente cita Jailhouse Rock prima di lanciarsi in un baccanale jazz-punk, si tramuta in un classico per i crooner del Nuovo Millennio in Side On (presta la voce Liam McKahey dei disciolti Cousteau) e si discioglie nelliperuranio ovattato di Picture Me Floating.
Il disco prezioso assai più nel dettaglio che nellinsieme è sopra la sufficienza, ma la vera dimensione dei Captain Mantell è quella dei trascinanti concerti dal vivo, dove i toni si irrobustiscono e i brani acquistano una prospettiva a 360°. Un destino condiviso, nella piccola Dischi Bervisti, anche da quellUno Bianca del factotum Bologna Violenta che abbiamo avuto modo di criticare nei mesi scorsi e che, decontestualizzato dallesibizione live, continua a rimanere lettera morta.
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