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R Recensione

8/10

Kiran Leonard

Grapefruit

C’è una bella canzone dei Kansas il cui verso d’apertura fa: “I closed my eyes / only for a moment, / and the moment’s gone”. Una metafora semplice e geniale della felicità o, perché no, della stessa vita umana. Se si chiudono gli occhi anche solo per un istante, ascoltando la musica di Kiran Leonard (senza la ‘e’, mi raccomando, ché altrimenti andrete a parare da tutt’altra parte), la probabilità di riaprirli e di non riuscire più a ritrovarsi è altissima. Ci si deve sempre aspettare qualcosa di nuovo, dal giovanissimo e vulcanico Kiran e dalla band di musicisti preparatissimi che lo aiuta a dar forma ai suoi sogni polimorfi: un turning point, un ascesso isterico, un salto di melodia inconcepibile, una sovrapposizione schizofrenica di generi. Come la cannonata elettrica che tuona, improvvisa, poco che scadano i due minuti di “Öndör Gongor”, figlia illegittima e ribelle di una nevrastenica geremiade slacker e a sua volta genitrice di angolari rintuzzamenti math. E se vi aspettavate che il brano terminasse con quei fuochi d’artificio corali post-buckleyani, non avete messo in conto che il riff più interessante di tutta la canzone può subentrare… a canzone terminata: uno zampettare caballeriano che spiazza, conquista e se ne va.

Vi sono così tanti mondi racchiusi nel sobbollire di “Grapefruit” (sophomore di “Bowler Hat Soup”, 2013), così tante contaminazioni, una babele di linguaggi in perenne sommovimento, che il primo impatto provoca non meno che timore: quel senso di soggezione positiva che, di tanto in tanto, si prova ancora di fronte ad un disco che, staccato dalla sua propria contemporaneità, si è già elevato a monumento imperituro, classico dei modern times. In un momento storico delicatissimo, in cui ci si illude ancora che i muri e il carbone possano fare la felicità di una nazione, un full length (definizione, qui, perfetta) del genere è più di una semplice provocazione: è un urlo di gioia, una tracimante manifestazione di vitalità. Anche perché, su tutto, spicca l’esuberante, creativa, incontenibile ingenuità del suo factotum, un ragazzino della provincia di Manchester nato nel 1995 (!), innamorato del brit rock, dei Mars Volta e di Tim Buckley, che ha cominciato a scrivere i propri brani nella speranza di creare una dimensione parallela in cui non trovassero posto le brutture della propria quotidianità, bullismo in primis. Se ne parla – fuggevolmente, metaforicamente – in “Pink Fruit”, una torrenziale suite di sedici minuti posta ad inizio tracklist (!!) la cui frase chitarristica d’apertura condensa “Shmap’n Shmazz” e “Ok Computer”, deraglia ad altezza “De-Loused In The Comatorium”, sembra addormentarsi in un non-luogo impro jazz, si risveglia con un ringhio mostruoso, vomita a gittata continua scorie noise radioattive e collassa in un brillante finale funk, perforato da un violino elettrico parente del David Cross di “Starless”. Cinquant’anni di musica rock senza barriera alcuna, masticati, divorati e risputati fuori in un ibrido tumultuoso, imprevedibile e spettacolare.

Fatico, sulla base della mia recente esperienza di appassionato, a trovare un disco così challenging, da intendersi come radicale a tutto tondo (nel modo di porsi, in ciò che chiede all’ascoltatore, nei picchi raggiunti). Potrei citare giusto “Beautiful Seizure”, l’incredibile esordio dei volcano!. Ed effettivamente – nei bruschi scartamenti vocali e nelle storture strumentali che costellano le raffinatissime melodie di “Grapefruit” – si ritrova molto dell’impatto deflagrante che caratterizzava i primi passi del power trio di Aaron With, tanto da pensare che il nostro Kiran abbia attentamente ascoltato quei brani… Si prenda, ad esempio, “Exeter Services”, i cui supersonici assalti garage finiscono dritti tra le braccia di un Morfeo cameristico. Simile lo schema che interessa il toccante ed elaborato incedere armonico di “Don't Make Friends With Good People”, cui fanno da contraltare una beffarda chitarrina afro e una serie di micidiali, pilotati rilanci post-core: lo scienziato immerso in meditazione e i suoi pericolosissimi specchi ustori. La palpitante sinfonia à la “Starsailor” di “Secret Police” e le visioni barocche di “Caiaphas In Fetters” (nel cui arrangiamento per archi si potrebbe individuare una nuova, libera ricombinazione di elementi di “Cruel”) sono passaggi di intenso e densissimo lirismo, la cui manifesta teatralità esteriore è pari solo al coinvolgimento emotivo. Solo sul finale si avverte un piccolo calo di tensione (sforzo da prestazione?): “Half-Ruined Already” è un breve inciso in fingerpicking necessario per riprendere fiato, mentre nei dieci minuti di “Fireplace” le tremebonde isterie vocali di Kiran – proiezione verbale di una trionfale calata bandistica ridotta a rumore di fondo, a totale disfacimento sonoro – si alternano alla quiete newsomiana delle voci femminili di Helene Bradley, Hattie Coombe e Mary Hepworth, senza troppo impressionare.

Insignificanti piccolezze, nient’altro che una goccia salata diluita in un lago di magnificenza e talento, la cui ambizione viene adeguatamente riflessa ed assecondata dai mezzi tecnici e creativi a disposizione. Chiudere gli occhi davanti ai tormenti e alle resurrezioni di Kiran Leonard è perdersi un’avventura sensoriale unica. “Grapefruit”, nel suo, è un album assolutamente unico.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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FrancescoB alle 9:07 del 8 dicembre 2016 ha scritto:

Opera ambiziosa, quasi opulenta. Difficile inquadrarla, Marco ci ha provato a mio avviso con ottimi risultati: fra Mars Volta e Tim Buckley, con passaggi più autorali e sferzate math-rock. Dopo i primi ascolti, posso dire di non aver ancora scovato il brano da consegnare all'immortalità: mi sembra più che altro di avere fra le mani una magnifica confusione (forse però devo solo approfondire). Poco male in ogni caso: il voto sarà molto positivo.