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R Recensione

7/10

Captain Mantell

Dirty White King

In un permanente cono d’ombra che li isola e, al contempo, ne fa risaltare l’indubbia unicità, i Captain Mantell danno alacre continuità alla loro interessante parabola artistica, in movimento dalla space-wave degli esordi ad un curioso, policromo e sempre più eclettico ibrido heavy-jazz-r’n’r. Il senso e la dimensione di “Dirty White King”, sesto full length della creatura di Tommaso Mantelli (e da essa stessa prodotto e registrato, in totale e prodigiosa autonomia), si costituiscono sul filo concettuale del regicidio come atto violento in cui si sublimano la liberazione dal potere e la perpetrazione dei meccanismi del potere stesso: una riflessione a suo modo interessante, specialmente per i foschi tempi contemporanei, che – come per il precedente, fortunato “Bliss” di tre anni fa – si esplicita in un ampio e variegato ventaglio di soluzioni musicali.

È questa sola, marcata eterogeneità stilistica (fatta eccezione per alcuni preziosismi tecnici da sempre marchio di fabbrica del gruppo come, ad esempio, l’acuto distribuirsi del riff stoner della title track su sezioni alternate di 6/8 e 5/8) a giustificare l’utilizzo dell’etichetta “prog”, per il resto piuttosto fuori luogo. Il viaggio di “Dirty White King” è sì avventuroso e stratificato, ma lontano dalle insistite cerebralità che spesso contraddistinguono i prodotti di genere. A stupire, anzi, specialmente per una band che non ha mai fatto mistero di subire la fascinazione della trascendenza cosmica, è un rinnovato e caparbio attaccamento ad una heavyness tutta terrena, sfrontata e di grande impatto. Basti mettere in fila il sax scorticante di Sergio Pomante che insuffla fuoco nel trogloditico passo melvinsiano di “Stuck In The Middle Ages”, la scansione quasi hardcore della frase chitarristica di “Blood Freezing”, le folate jazzcore di “Let It Down” (mitigate da un arioso ritornello impreziosito dagli archi del fidato Nicola Manzan) e il cabaret di “Even Dead”, fra Temple Of The Dog e Morphine.

I tempi di “Rest In Space” sembrano davvero lontani, non solo cronologicamente: scevri da ogni pressione, Mantelli e compagni sembrano semplicemente assecondare ogni loro esigenza creativa. Che si tratti di gutturali recital in onore a E. A. Poe, infestati da pianoforti scordati e tribalismi assortiti (“Worst Case Scenario / Alone”), di intensi campi lunghi cinematografici al confine del post metal (ancora essenziale il contributo di Manzan in “Livor Mortis”), di irrefrenabili e cupi crescendo blues (“Days Of Doom”) o di potenziali hit radiofoniche giocate sull’iterazione di un riff minimale à la Queens Of The Stone Age (“The Invisible Wall”), il leit motiv sembra essere quello di una libertà espressiva assoluta, a tratti persino eccessiva e un po’ stucchevole (come nella conclusiva “And Nothing More To Come… Maybe”), ma costante ed inesauribile: un’arma risolutiva, che stimola l’ascoltatore ad accumulare ed approfondire gli ascolti.

Detto di un disco genuinamente rock, nel 2017 italiano, ci pare un gran bel complimento.

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