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R Recensione

7/10

John Zorn

Tractatus Musico-Philosophicus

Conoscendone il personaggio, l’opera e il modus operandi da un ormai discreto numero di anni, ed essendo al corrente delle recenti e spiacevolissime disavventure finanziarie in cui si è trovato giocoforza a navigare (ne abbiamo già accennato nel pezzo riguardante “The Hierophant”, ne riparleremo a dovere in un futuro approfondimento degli undici volumi di The Book Beri’ah), avrei dovuto aspettarmi una mossa del genere dal mastermind John Zorn: un musicista che, messo spalle al muro, estrae dal cilindro magico una risorsa che non sospettavi potesse avere. Succede così anche questa volta: il calcio nel posteriore della truffa economica viene calibrato dall’arcuata prospettiva di una performance musicale che – concettualmente, musicalmente, creativamente – si proietta all’indietro di almeno quarant’anni, quelli divenuti retrospettivamente noti come “Parachute Years” (la stagione febbrile e irripetibile del giovane Zorn tuttofare, dei primi ostici game pieces, maniacale sacerdote dell’improvvisazione, voce dell’avanguardia jazzistica newyorchese più irriverente e iconoclasta).

Tractatus Musico-Philosophicus” dice tutto sin dal titolo: nelle “Philosophical Investigations From The Musical Theatre”, l’unica grande suite di trentotto minuti della tracklist, si condensa uno Zorn-pensiero che, dopo aver occhieggiato per l’ultima volta nel sottovalutato “Femina” (2009), pareva perlopiù essersi eclissato dietro il nuovo e accomodante astro di easy listening e romance music. Qui, invece, non v’è trucco né inganno. John esegue, suona e produce tutto: oltre a sax e voce lo si sente dietro a organo, Rhodes e piano preparato, chitarra, basso, batteria, percussioni, sampler e oggettistica varia. Nei primi cinque minuti l’improvvisazione prende le forme conosciute di un free jazz colemaniano sempre sull’orlo della crisi di nervi, come abbiamo imparato a sentirne molti lungo i decenni, ma è solo uno specchietto per le allodole: scanditi da annunci cavernosi che recitano aforismi wittgensteiniani a distanze irregolari, si susseguono tessere impazzite di un domino senza soluzione, sballottato tra frastornanti orchestrine stallinghiane di intonarumori, lallazioni esoteriche per notturni dell’oltretomba (una delle sezioni più lunghe), urticanti cicalini electro-noise in perenne cortocircuito (si arriva ad un passo dallo stordimento sensoriale), aporie di impalpabile concrète e polimorfiche sinfonie dodecafoniche (sminuzzate tra virulente distorsioni chitarristiche e minimalismo gotico à la “Hermetic Organ”).

Risentire all’opera il maestro che, dopo tanto tempo, si cimenta nuovamente nel metodo compositivo che gli ha regalato la prima notorietà nel quadro artistico in movimento della NY tardo settantiana fa sempre il suo effetto. Non possiede un briciolo della detonante ambizione da manifesto di allora, ma “Tractatus Musico-Philosophicus” è una lezione di stile e un disco che fa bene al cuore.

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