Blue Nile
Hats
Negli anni ottanta non esistevano gli mp3, internet era un'utopia, i peer to peer erano rappresentati dalle cassette registrate dagli amici, l'home cinema significava traslocare all'Odeon. Se volevi ascoltare musica, toccava al buon vecchio stereo: amplificatore, due casse, e il rivoluzionario lettore cd.
A Glasgow esisteva (ed esiste ancora) la Linn, storica marca di hi-fi anarchicamente eccezionale: interconnessioni non standard, prezzi clamorosi ed una qualità del suono a livelli maestosi. Per dimostrare la superiorità dei loro prodotti, questi bizzarri personaggi decisero di produrre i dischi in proprio ed utilizzarli per le prove audio. E' così che nel 1989 l'uscita numero due della Linn Records, che ancora oggi propone titoli prettamente scozzesi, propone il secondo lavoro di una band della zona, il cui primo disco risaliva solamente a sette anni prima: i Blue Nile.
Intitolato Hats, con una copertina che più notturna non si può, srotola le sue sette tracce durando poco meno di quaranta minuti di ascolto totale. Il sottoscritto sbatte contro a questo gioiello durante uno speciale di Rai Stereo Notte, scivolando nei semplici, definitivi solchi del suo ritmo nello spazio di pochi secondi. Sono passati quindici anni e migliaia di altri album, ma questa fu la prima illuminazione nella mia lunga strada di ascoltatore.
Diciamo subito che i Blue Nile non sono una band particolarmente prolifica: quattro dischi in totale dal 1982 ad oggi, tutti intervallati da silenzi che ogni volta paiono definitivi ma non lo sono mai. Si dice che brucino i loro demo, si dice che la loro ricerca verso la perfezione abbia del maniacale. Può darsi. Certo è che Hats rappresenta un lavoro di sintesi che ancora oggi lascia a bocca aperta: ogni suono superfluo è evitato, ogni modulazione è cercata (e trovata) con il microscopio.
E' un disco notturno, solitario, da sigaretta e whisky da sorseggiare, da autostrada senza particolari destinazioni, la colonna sonora di un amore perduto di fresco che scava un solco e indica la direzione da seguire. La voce di Paul Buchanan si adagia sui sintetizzatori e dona loro una profondità tridimensionale, deposita un'anima sulle note che ti fa dire "ha ragione lui".
E' spiritualità romantica, musica sulla quale ogni luce sarebbe superflua. Il ritmo del disco è regolare, costante; gli arrangiamenti semplicissimi, mirati all'essenza del suono. Le parole raccontano di piccole storie, di rapporti appesi ad un filo, di un quotidiano leggero ma inesorabile. Un numero imprecisato di artisti ha ricantato questi brani, offrendo versioni personali di un percorso che magari non sarà stato celebre, ma che ogni autore spende una carriera a rincorrere.
Basta ascoltare Over the Hillside o Let's Go out Tonight per capire, come aveva fatto Ungaretti a suo tempo, che la sottrazione porta ad un essenziale che vale tanto oro quanto pesa. Oppure procurarsi il singolo The Downtown Lights, dove come B side c'è Rickie Lee Jones che fa da ospite in una versione di Easter Parade (tratta dall'album precedente) che ridefinisce il concetto di pelle d'oca.
I Blue Nile hanno proseguito per la loro strada, sempre pubblicando ogni sette anni, dando quindi alle stampe un altro paio di dischi nei quali albergano splendide piccole perle.
Tuttavia, per linearità e coerenza Hats è un paio di gradini sopra a tutti gli altri, e rimane un classico sia esso usato come prova audio per testare un sistema Linn sia ascoltato attraverso le mediocri cuffiette bianche dell'iPod. Press play , e benvenuta la notte.
Tweet