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R Recensione

8/10

Dogs in a Flat

Days Before Rubbery

I giorni prima di una rapina sono carichi di angosce, paure, speranze e insonnie. I Dogs in a flat sembrano riuscire a riportare perfettamente questi sentimenti con il loro secondo lavoro, “Days before rubbery”, non solo attraverso la facile composizione narrativa dei testi, ma anche e soprattutto attraverso la musica.

E così i racconti delle vite storte dei protagonisti della rapina (Peggy la lap-dancer, Sam il dj, l’uomo senza nome dalla vita sconclusionata) scivolano meravigliosamente al disotto della originalissima miscela musicale che il gruppo veneto crea: un indie-folk che respira a pieni polmoni dalla tradizione british-pop e dal country americano, spalancando magistrali parentesi, quando ne sente il bisogno narrativo, in atmosfere più scure, magiche e introspettive, cariche di un’anima celtica.

Days before rubbery” riesce in questo modo a equilibrarsi tra l’attualità più presente e il passato impolverato fino alla rarefazione, tra realtà e fiction, tra eccitazione e orrore, tra la filmica crudezza di Peckinpah e la goliardia di Guy Ritchie, passando attraverso il mistero di un Maupassant rinato tra la bruma irlandese.

Subito, con la prima traccia, “Peggy’s night”, s’intuisce che la musica qui avrà un’importanza tanto grande quanto quella delle parole, se non maggiore: il violino si sostituisce alla voce tra una strofa e l’altra, simulando l’affannato respiro che finirà solo con l’arrivo della luce del sole, in un gioco strumentale che reca magistralmente l’angoscia dell’insonnia. “And so the story starts” è un saggio perfetto delle potenzialità dei Dogs in a flat. Il gruppo arriva qui a sfiorare l’acme della loro originalità creando, sopra un arpeggio da ballata anni ’90, l’alternanza magnifica di tre voci (due maschili e una femminile) che si chiamano, si alternano, domandano e si rispondono in una concatenazione che culmina perfetta nell’esplosione collettiva di cori e contro-cori.

Nella seguente “Diamond age” c’è tutta la personalità e la forza della voce femminile dei Dogs in a flat, quella di Elena Scarpalla, che ricordando a tratti la rabbiosa grazia di Alanis Morissette, si esalta in aspirati e lamenti anticipando il pianto del violino.“Old dirt road” è un brano strappato alla tradizione folk anglosassone, la stessa nella quale pescarono grandiosamente Fairport Convention e i Traffic di “John Barleycorn must die”: il violino taglia il suono come coltellate di vento gelido che tirano la polvere schiaffeggiando il viso rosso di alcol di un barbone fuori da un saloon del vecchio west. Proprio lo scenario dentro il quale ci porta “Houses”, dove regna un country ebbro sporcato da un assolo di banjo e ripulito come il tavolo di un bar da un coro femminile alla Indigo girls.

Ormai ci si è quasi dimenticati di trovarsi di fronte a un gruppo indie dei nostri giorni, quando invece si apre alle nostre orecchie il sound di “Falling down”: un brano semplice, con un ritornello alla Counting Crows che difficilmente riesce ad uscire dalla testa. Un esercizio di stile pop per rendere meno “traumatico” il salto dal puro country a una nuova sperimentazione indie-folk, quella di “Sam radio star”, pezzo che apre letteralmente le porte a qualcosa di tanto originale da non essere mai stato ascoltato prima: una costruzione strumentale splendida per riporare il senso di suspense e angoscia, con un arpeggio ossessivo di chitarra, una voce tanto enfatica da sembrare che reciti, mentre il violino pizzicato sulle corde le fa da accento. Tutto perfettamente creato per dare vita alla frenetica attesa del ritonello che esplode liberatorio e delicato come un’esultanza.

Steel horse” e “Broken bones” sembrano più due divertissements, due pause scanzonate nell’impresa che i Dogs in a flat cercano di portare avanti con quest’album, la prima in chiave pop-punk e la seconda imbevuta ancora una volta di country. La forza e la delicatezza sembrano poi trovare un equilibrio straordinario in “Raised on radio”, attraverso le voci di Michele ed Elena Scarpalla: la prima si propaga profonda e sussurrata sopra una calma ballata, quasi in attesa di trovare la propria completezza nell’eco della seconda che arriva incantevole a strappare brividi. “Neither up or down” è una cavalcata folk con una voce vellutata e il violino che l’accompagna verso il ritornello pop, ancora una volta a ricordare la felice malinconia dei Counting Crows.

In “Shine” le corde della chitarra acustica sono pizzicate con leggerezza, il violino da al loro suono gli accenti menre la voce sussurra come cantasse una ninnananna antica e dimenticata. Ma proprio nel momento in cui tutto sembra dover scivolare nel silenzio della notte, ecco che esplode un coro dal sapore celtico reso ancora più intenso dall’assolo del violino, emerso nel momento preciso in cui cala nuovamente il sussurrare della voce. Alla fine dell’ascolto ciò che è chiaro è il valore aggiunto che i Dogs in a flat mettono sul piatto, ma sarebbe troppo facile individuare questo valore esclusivamente nello splendido violino di Federica Capra, perché ciò che pone il gruppo veneto su un piedistallo isolato rispetto a qualsiasi altra band indie-folk di livello internazionale è la sua forza collettiva.

Sono infatti le costruzioni musicali complesse e ricercate di Days before rubbery a provocare i brividi sulla pelle dell’ascoltatore, dandogli a volte il colpo di grazia con le architetture vocali che le sorreggono: i Dogs in a flat riescono, come pochi altri gruppi finora, nell’impresa di creare una parte vocale perfetta, in una sintesi maestosa tra la voce di Elena Scarpalla e quella di Michele Scarpalla, che si intrecciano, si rincorrono e si superano anche grazie a cori e contro-cori cui partecipano tutti, o quasi, i componenti del gruppo.

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