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R Recensione

6,5/10

Bologna Violenta

Bancarotta Morale

Sebbene con (parte di) quel mondo condivida solo un approccio ironico e grottesco alla natura delle cose e, forse, una tensione radicalmente libertaria in perenne potenza, ho sempre trovato affascinante la zona grigia che rende conto dei subliminali punti di contatto tra il metal e le varie fasi evolutive del progetto Bologna Violenta. Il lungo percorso che fa oggi approdare il duo Manzan-Vagnoni a questo “Bancarotta Morale”, e di cui si stilizzavano i tratti essenziali già nella recensione del precedente EP “Cortina” (di cui questo full length, va detto, rappresenta l’articolazione immediatamente successiva), ricorda da vicino la fase di costruzione e decostruzione che ha a suo tempo investito le avanguardie metalliche a cavallo dei millenni: il rifiuto eclatante di una struttura narrativa coerente (le prime registrazioni casalinghe), una ricombinazione concettuale parallela e alternativa (“Il Nuovissimo Mondo”), il punto di massima sintesi tra spinte opposte (“Utopie E Piccole Soddisfazioni”), una fase a tinte variamente interlocutorie fra ritorni al passato (“Uno Bianca”) e crossover totali (“Discordia”), infine una seconda e più profonda faglia, che coincide con il tentativo di codificare nuovi contenuti espressivi in parallelo ad una ristrutturazione del sistema formale (nel caso specifico, la musica pesante senza chitarre dei bozzetti di “Cortina”). “Bancarotta Morale” è figlio della stessa esigenza che portava dieci anni fa Dave Condon degli Altar Of Plagues ad invocare la venuta di una heavyness che prescindesse da amplificatori sempre più potenti e accordature sempre più ribassate: sfida mica da ridere ancora dieci anni dopo, specialmente se si tiene conto della peculiarità dell’universo di Bologna Violenta.

La suddivisione interna del disco è ordinata in base ad una rigida gerarchia: due macroparti, la prima delle quali comprende un prologo e quattro capitoli segmentati in piccoli eventi musicali fra loro concatenati, mentre alla seconda è consacrata un’oceanica improvvisazione che, da sola, occupa più di metà del minutaggio complessivo. Da brividi il filo rosso tematico: storie dimenticate di sublime degradazione morale (“Le storie raccontate in questo disco sono vere e se vi sembrano moralmente inaccettabili è perché molti comportamenti degli esseri umani sono inaccettabili”), tra faccendieri dediti alla truffa patologica (Il Truffatore), bande criminali ridotte dal bisogno a spettacolini paracircensi per i bagnanti del mar Nero (La Banda Przyssawka), oscure pagine di cronaca nera familiare ambientate in un Polesine torbido, depresso e abbruttito (La Famiglia Subiot) e moderne mangiauomini dalle insaziabili brame materiali (La Becchina). Per l’occasione via le chitarre elettriche, limitate al minimo indispensabile quelle acustiche: Manzan mette le mani su archi di varia foggia e dimensione (violino, viola, violoncello), armonium, bass pedal, organo e sintetizzatori. Nonostante un filo di monotonia, il primo quarto d’ora vola in relativa scioltezza: dopo una puntuta introduzione per violino e piaghe harsh da decubito (“Estetica Morale”) si susseguono una giga d-beat piena di bozzi e distonie (“Gli Affari”), intricate partiture ritmiche perforate da svolazzi barocchi (“Il Santo”), grind versione Bartók (“Il Ladro”), classici episodi da Bologna Violenta elettrici riarrangiati per l’occasione (“Il Picchiatore”, “La Fidanzata”), lacrimevoli e drammatiche microsinfonie per archi (“La Sposa” ben caratterizza lo sfortunato personaggio, “Lo Psichiatra” vi aggiunge delle ombreggiature perniciose), sventole dalla micidiale quadratura (“Lo Sposo” viene sarcasticamente conclusa sul passo incerto di un carosello nuziale rosso sangue) e aghiformi drone ambientali pervasi d’inquietudine (“Sophie Unschuldig”).

Giunti a questo punto quasi dispiace riconoscere che la natura perennemente in fieri dell’ambiziosa “Fuga, Consapevolezza, Redenzione” (19:09), per ammissione degli stessi musicisti nata quasi in presa diretta a partire da un’improvvisazione d’organo, non riesca a rendere giustizia all’operazione nel suo complesso. Ammirevole l’intento, piuttosto estenuante il risultato: un flusso ambientale free form in cui origo e foce vengono a confondersi e, soprattutto, in cui manca del tutto quella progressiva gradualità climatica cui rimanderebbe il titolo programmatico. Emblematico è il falso arrivo a 16:35, quando parrebbe finalmente che il sipario si abbassi su escoriazioni concrète: il brano invece si riavvia per l’ennesima volta, sulle note lamentose di una fanfara per armonium, ma è a sua volta una ripartenza monca, annegata dopo pochissimo in uno sbrigativo drone assordante preso a schiaffi dai blast di Vagnoni.

Un’occasione mancata, questa, che non ridimensiona granché il giudizio positivo sull’intero disco, ma che costringe, in termini di freddi e insignificanti decimali, ad una maggiore moderazione. L’auspicio è che il materiale di “Bancarotta Morale” possa fungere da primo ariete per esplorazioni ancora più coraggiose.

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