A Motorpsycho @ Locomotiv Club, Bologna, 29/05/2019

Motorpsycho @ Locomotiv Club, Bologna, 29/05/2019

Foto di Carlo Vergani

Alle soglie dell’età adulta sono arrivato ad una conclusione, che a seconda delle prospettive apparirà più o meno triste, ma che è comunque inesorabile: sono completamente incapace di vendermi. Non sono in grado di far valere le mie idee. Non riesco a convincere gli altri della bontà di ciò che ascolto, vedo, leggo (gli inguaribili utopisti aggiungerebbero forse anche “voto”, ma non siamo più nel 2011). L’autopromozione mi è estranea almeno quanto estranee mi sarebbero un paio di zampe palmate. E così via. Fatico persino a scegliere un aggettivo (uno solo: non dieci) che possa riassumere al meglio l’avventura che vorrei raccontare – e non certo per mancanza di vocabolario (l’asianesimo abbonda sulla penna degli stolti?). “Enorme” e “dellamadonna” sono stati ufficialmente marchiati come cinéfilismi e banditi dalle autorità indiscusse in materia. La potenza di ogni superlativo si è stinta contro il proprio abuso linguistico. Rimangono le semplici qualificazioni, il cui profilo tuttavia impallidisce in un mondo che strepita ed esagera ad ogni piè sospinto.

Dal concerto di Roncade di cui parlai su queste pagine nel lontano 2013 ho visto dal vivo i Motorpsycho altre tre volte. Ripercorrendo nella memoria quelle date, mi sono reso conto che ogni concerto, aldilà del personalissimo filtro soggettivo (nel caso di chi scrive, lo ammetto, particolarmente perturbante), poteva essere riassunto in un momento topico, il corrispettivo di quella memorabile esecuzione di “Year Zero”. A Bologna, nel 2016, per il tour di “Here Be Monsters”, fu una versione ciclopica di “Un Chien D’Espace”, vascello heavydelico di tormenti e inquietudini novantiane allungato quasi fino a mezz’ora (l’incendio nel cuore, il diluvio fuori). L’anno successivo, ancora a Roncade, in supporto a “The Tower”, la setlist pre-encore venne chiusa da una sorprendente “Plan #1”, una tempesta di elettricità emotiva in grado di travolgere tutto e tutti. La piovosa e simpatetica Bologna che oggi accoglie i tre norvegesi (+ uno: torna a farsi vedere come membro aggiunto il prezioso Reine Fiske), freschi di pubblicazione di “The Crucible”, viene ricompensata con un regalo inatteso, in un bis invocato a gran voce: il dimesso lonerismo acustico di “Fool’s Gold” (da “Blissard”, 1996) si trasforma in una palpitante cavalcata psichedelica di un quarto d’ora, un bozzetto semiacustico frustato dalle gargantuesche distorsioni del basso di Bent Sæther e lasciato andare lentamente alla deriva, sulle suggestioni chitarristiche incrociate di Hans Magnus “Snah” Ryan e Fiske. L’onda monta, cresce e poi si spegne lentamente, sino a sfumare su un singolo accordo, ripetuto sempre più flebilmente, nel silenzio immoto ed assoluto della platea. L’estasi è tale che si percepisce distintamente ogni singolo suono, come se gli astanti, più che ad un concerto, stessero partecipando ad un rituale mistico: e il raccoglimento dura per interi secondi dopo la fine del brano, quasi si avesse paura di spezzare l’incantesimo, tra l’evidente emozione della band. L’applauso, infine, prima timido, poi via via sempre più scrosciante, a celebrare con merito l’indimenticabile esperienza appena conclusasi.

Non è solo la qualità dell’intima connessione stabilita coi propri ascoltatori a fare grandi i Motorpsycho. È la realtà di una band che, giunta al suo trentennale d’attività, con ventuno dischi e innumerevoli formati minori alle spalle, non arretra di un centimetro e regala ancora delle prestazioni impeccabili, torrenziali (due ore e cinquanta, una delle più lunghe del tour), totalizzanti. È anche merito, oltre che della formazione allargata, ben rodata e tecnicamente eccelsa (che permette il dispiegarsi dei magniloquenti arrangiamenti per cui si caratterizza la più recente produzione) e del felice innesto di Tomas Järmyr (l’ideale via di mezzo tra il pragmatismo diy di Håkon Gebhardt e il virtuosismo innato di Kenneth Kapstad), di una scaletta che svaria esaurientemente fra grandi classici, cover rivisitate e nuovi inediti, integrando materiale di varia provenienza in un tutto unico, compatto e coerente. Ne è perfetta rappresentazione il blocco di mezz’ora che conclude, in un’unica intensissima tirata, la prima parte della setlist. Dal vivo “Psychotzar” (provocatoriamente dedicata “a tutti i Trump del mondo”) è un mammuth sabbathiano di atlantica potenza, costellato di fraseggi chitarristici di gran gusto e riassunto in un crescendo drammatico che crepita con fragore doom-jazz: segue a strettissima distanza nientemeno che l’ispido hard rock di “Hogwash” (dall’esordio “Lobotomizer”, 1991), stoppato nell’inconfondibile giro di basso di “Walking On The Water” (tripudio unanime della folla) che, a sua volta, evolve naturalmente in un altro storico ripescaggio, quello dell’indiavolata resa di “Black To Comm” degli MC5 (ognuno leghi quel “come on!” ad un proprio, personalissimo auspicio).

Se io non so vendermi, meno ancora i Motorpsycho, che da sempre suonano con integerrima onestà solo ciò che a loro piace. I risultati di pubblico, in ogni caso, si vedono: nell’affluenza (eccezionale), nel feedback (entusiasta, costante), nell’affetto dimostrato. Anime che parlano ad altre anime. Quando, all’inconsueta apertura old style con “A.S.F.E.” (eseguita per la prima volta dal 2017), segue una doppietta d’eccezione come “The Other Fool” (Fiske a mellotron e tastiere riesce a restituire parte del lussureggiante arrangiamento per archi presente su disco) e “Whip That Ghost” (con sublimi e mai banali finestre d’improvvisazione jazz), è come se il tempo si congelasse, come se ogni quanto valesse un’eternità. Impressione che mai si perde o viene meno, finanche nelle sezioni più complesse ed elaborate (il trittico folk-proghedelicoA Pacific Sonata” – “Malibu” – “Stunt Road”, la sonata crimsoniana di “Lux Aeterna” stritolata senza pietà da mefistofelici tritoni noise), nella fenomenale giga heavydelica di “Mountain” (riproposto il numero della band che accenna l’hully gully a ritmo del groove!) o nella tortuosa operetta prog antimilitarista di “The Crucible” (una delle sorprese della serata), i cui sprint rushiani vengono polverizzati in una sezione centrale di rumore bianco.

Ammirazione intellettuale. Godimento fisico. Balsamo spirituale. Mi inquieta un cruccio: come si traduce in parole l’esperienza emotiva di un concerto dei Motorpsycho? Non si trasmette: si vive. Lontani dalle banalità dell’esistenza, riflettere nell’irreale silenzio di “Fool’s Gold”. Riscoprirsi puri, folli, giovani. Per sempre.

SETLIST

A.S.F.E.

The Other Fool

Whip That Ghost

Triggerman

Mountain

Stardust

Lux Aeterna

A Pacific Sonata – Malibu – Stunt Road

Überwagner Or A Billion Bubbles In My Mind

The Pilgrim (Wishbone Ash cover)

The Crucible

Psychotzar

Hogwash

Walking On The Water

Black To Comm (MC5 cover)

ENCORE

Fool’s Gold

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