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R Recensione

6/10

Does it offend you, yeah?

Don't Say We Didn't Warn You

Scegliere il nome per una band è questione di attimi tanto veloci quanto spietati. L’importanza di un qualcosa che rimanga impresso nella mente delle persone, al di là della proposta musicale, rappresenta il primo passo verso un marketing mirato, che può seriamente aiutare un gruppo a pubblicizzarsi. Evitando panegirici inutili, vi basti pensare ai Too Much Blond, band fiorentina vincitrice nel 2007 di Operazione Soundwave e immediatamente prodotta da “Santa” Caterina Caselli. Niente di nuovo musicalmente parlando, tuttavia il loro nome era a dir poco geniale. Non solo riprendeva una frase del thriller Fincheriano Fight Club, ma era proprio l’asserzione con la quale Edward Norton ammoniva Jared Leto, lottatore clandestino nel film e desiderio sessuale di orde di ragazzine nella vita vera (ovviamente è anche il cantante dei 30 Seconds to Mars, ma questo è meno importante). I Does It Offend You, Yeah? non solo hanno ragionato allo stesso modo, ma hanno anche cercato di espandere il concetto, abbinando ad un nome assurdo - molto meno elucubrato a livello pubblicitario - i titoli di album più prolissi che io abbia mai letto. Due colpi in uno, un breakthrough commerciale mica da poco.

Tuttavia, come in molti altri campi d’azione, le teorie scritte su carta sono mera speculazione mentre la realtà dei fatti prende vie ben diverse. Succede così che mentre i Too Much Blond hanno concluso la loro carriera prima di iniziarla, i DIOYY riescono a malapena ad affacciarsi sui mercati musicali internazionali se non per alcuni dj set live. Ovviamente ne hanno avute di ottime esperienze pregresse, a partire dai tour di supporto ai Bloc Party arrivando sino ai redivivi Linkin Park, ma il loro nome non è mai decollato come dovrebbe. Strano, considerando l’aura catchy sprigionata da “We are rockstar”, il loro primo singolo datato 2008, dove tra riff pescati pari pari dal Black Album, synth vagamente punk funk e campanacci che portano alla mente il fantastico groove di Ian Paice su “the mule”, offrivano un meltin pot artistico che riusciva ad ammaliare senza mai risultare farraginoso.

Arrivati al temibile secondo appuntamento, dopo una dura riassestata alla line-up, il quintetto di Reading ci riprova estremizzando quanto già detto nel primo album. Don’t Say We Didn’t Warn You (che titolo eh!) pesca a piene mani dalle correnti di elettro brit rock moderno, infarcito di cassa in quattro quarti e sporcato da synth e chitarroni elettrici ma riesce anche a regalare sporadici momenti easy listening alternati a brani usciti pari pari da una session dei Prodigy. L’unico dubbio che potrebbe assalire chi legge è come fare a cucire in un unico tessuto organico tutte queste influenze. I DIOYY non si preoccupano minimamente di fissare un ordine, mostrandosi avversi alla teoria dell’equilibrio. Arrivano a mischiare eccessivamente le carte in tavola, assestano il primo colpo con un brano a metà tra i Radiohead e il Marylin Manson più industrial, passano poi a scrutare l’abisso della follia con The Monkeys are Coming per poi riemergere con i pruriti adolescenziali di Pull Out my Insides, tragicomico sing along che potrebbe presenziare come soundtrack nel prossimo trailer di Vanzina. Con Wondering c’è spazio anche per una breve intrusione in quell’hip hop tamarro contaminato da influenze nu metal targato fine anni’90 (contagio avvenuto durante le tourné con i Linkin Park).

I Does It Offend You, Yeah? propalano note come fossero sventagliate di mitra che disturbano, confondono ed ubriacano l’ascoltatore conducendolo in un orgiastico baccanale in cui la coesione è l’unica grande assente. Tuttavia, per quanto si possano muovere critiche acide su quale sia la miglior strada da intraprendere, la sostanza di molti brani è innegabile e a tratti regala emozioni concentrate in pillole. Una canzone come John Hurt, in cui il groove di batteria dà piccoli assaggi di reggae ton alternati a mid. tempo furiosi, è da brivido. Anche nel finale, con Broken Arms, i nostri sembrano cambiare direzione quando richiamano nuovamente i fantasmi dei Radiohead, spostando il centro di interesse dai synth alle chitarre, che accompagnano un cantato emozionale. Forse la necessità di preconizzare uno stile nuovo ha giocato d’anticipo sul buonsenso, rendendo i Does It Offend You, Yeah? un gigante dalle gambe di cartapesta la cui muscolatura esile non gli consente di essere totalmente indipendente. In alcuni punti la staticità tradisce l’eccessiva presenza di clichè, in altri il dinamismo permette di intravedere numerosi barlumi di luce che ambiscono a divenire immensi spazi rifulgenti. Basta poco, solo una piccola rinvigorita all’impianto, nel frattempo possiamo accontentarci di un sano headbangin.     

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