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6,5/10

Il Teatro Degli Orrori

Il Teatro Degli Orrori

Via il dente, via il dolore: subito sotto con i tasti dolenti, ché si finisce prima e, chissà, ne nasce magari qualche consiglio costruttivo. “Disinteressati E Indifferenti” è una sciabolata tra capo e collo, assalto noise vecchia maniera (ma con un quid balzellante, anarcoide nella ritmica, che riporta quasi alla mente i Dead Kennedys o, al limite, i System Of A Down pre-“Toxicity”),  creatura e possesso dei ghignanti monologhi di un Pierpaolo Capovilla particolarmente in forma. Le chitarre macinano arpeggi sbilenchi, progressioni blues da sanatorio sudista, jingle distorti, in un mash up stilistico pienamente postmodernista: il basso, gelido e distorto, è tagliente come una lama. Finché, ad un certo punto (per la precisione, a 2:25), si avverte, distintamente, la sensazione che il brodo si stia allungando, che il gioco stia sfuggendo di mano: le acrobazie verbali di Capovilla sembrano, ora, incrinarsi, scivolare verso l’imbonimento qualunquistico, con un beffeggio allo star system e al “rap de noantri” che vuole essere sagace, risultando invece grossolano. Tempo quindici secondi e la tonicità del brano si sbriciola in un incomprensibile momento corale, una sorta di tardo ritornello cantato dal gruppo al completo. A nulla serve la caustica ripresa conclusiva: la magia è, ormai, completamente perduta.

Il primo coro della discografia de Il Teatro Degli Orrori – escluse le iniziali urla di arringa – spunta fuori al cinquantottesimo secondo di “Vita Mia”, traccia d’apertura dell’esordio “Dell’Impero Delle Tenebre” (2007) ed è, banalmente, genialmente, un’interpolazione da “Stuck In The Middle With You”, degli Stealers Wheel. Ne seguiranno poi altri (“Compagna Teresa”, “Scende La Notte”, “La Canzone Di Tom”, “Maria Maddalena”), ma in proporzione irrilevante. Il focus comincia a spostarsi nel successivo “A Sangue Freddo”, con i suoi (riusciti) arrangiamenti complessi e la diversificazione stilistica in fase di scrittura (basterebbe citare il poker centrale “Due”, “A Sangue Freddo”, “Mai Dire Mai” e, soprattutto, “Direzioni Diverse”), per sbocciare compiutamente in un volutamente – ma imperfettamente – polifonico “Il Mondo Nuovo”. Ne “Il Teatro Degli Orrori” non c’è canzone che, indipendentemente dal mood, non attiri un coro. È un meccanismo bizzarro ma – se si guarda alla perfetta ciclicità con cui si ripropone, particolarmente nei ritornelli, dove Capovilla non canta praticamente mai da solo – inevitabile, non più negoziabile: una scelta stilistica precisa, a tratti ficcante, assurta a paradigma. Pesa però tantissimo, questo nuovo schema, perché livella ballate e pezzi tirati, giravolte elettroniche e distorsioni novantiane, facendo suonare tutto allo stesso modo: pesa perché onnipresente, finanche pacchiano, bombastico (un infelice effetto stadio? Eccome). Ci si può interrogare, a lungo, sui motivi di quest’impostazione. Abbiamo imparato a conoscere bene i limiti del leader interprete (“Obtorto Collo” è stata solamente la stigma): ma sono essi tali da giustificare un tale abuso delle backing vocals? È, forse, la difficoltà di reggere dall’inizio alla fine una parte solista? Troppa generosità verso i propri sodali? Non abbiamo una risposta certa e non ci sentiamo in grado di avanzare ipotesi: ci limitiamo a registrare i dati, con dispiacere.

Procediamo oltre. Eresia, reading musicale dedicato a Majakovskij, fu, tra il 2010 e il 2011, il progetto che sancì l’inizio della collaborazione tra Capovilla e Kole Laca, allora tastierista dei 2Pigeons (ufficialmente entrati in iato): un binomio rinnovatosi per Ispoved’ chuligana (omaggio a Sergej Esenin) e La religione del mio tempo (all’amato Pier Paolo Pasolini) e fissatosi, infine, nel tour di promozione de “Il Mondo Nuovo”. I due turnisti di allora, Laca e Marcello Batelli, entrano ora in pianta stabile nella formazione, contribuendo attivamente alla scrittura di molti brani de “Il Teatro Degli Orrori”. Se la mano di questo è risibile, gli arrangiamenti elettronici di quello – un lambiccato aggiornamento del primo involucro in cui Sir Bob Rifo dei Bloody Beetroots aveva avvolto la già citata “Direzioni Diverse” – sono forse la novità più rilevante di questi dodici pezzi. Pregevoli alcuni passaggi: i pizzicori che si fanno rumorosa e orrorifica distonia in “La Paura” (bello anche il continuo sfumare di elettriche e acustiche: peccato, cento volte peccato ancora per quel ritornello!), l’epica marcescente di “Genova” (su cui sarà necessario tornare), le incursioni ballabili della dolceamara “Una Giornata Al Sole” e, soprattutto, della confessione spontanea de “Il Lungo Sonno (Lettera Aperta Al Partito Democratico)”, amara introspezione votata al dancefloor – forse lo spunto meritava qualcosa in più di questo synth rock un po’ fracassone… – su una sinistra parimenti evaporata dalle stanze del potere (ma ci è mai davvero penetrata?) e dalle coscienze della gente comune.

Tutto ok, tutto ok, c’è l’elettronica ma è tutto ok? Sì e no, forlaniamente, perché ciò che Laca offre – in positivo – si riflette – in negativo – su tutta una serie di altri aspetti, secondari solo in apparenza. Chiamare “Il Teatro Degli Orrori” il proprio quarto full length è una decisa presa di posizione: si riporta tutto a casa, si resetta il passato e si riparte. La volumetria delle chitarre di Batelli e di Gionata Mirai (una prova da vero numero uno, la sua: gusto, tecnica e fantasia) è, però, ben lontana dagli abissi luciferini dell’esordio, o anche solo dalle selezionate emicranie del second act. È post-core da vorrei-ma-non-posso quello della stessa “Disinteressati E Indifferenti” (un rilevante potenziale distruttivo, in parte coperto dal vestito di Laca). Il (bruttino) singolo, “Lavorare Stanca” – una riedizione spoken word di “Io Cerco Te”, con un paio di progressioni strumentali curiosamente ammiccanti all’emocore cerebrale degli anni ’90 –, è chiosato synth dal primo all’ultimo secondo, con un’inevitabile risultante di sovrabbondanza. La discutibile mescilanza electro-noise mette la sordina anche in “Bellissima”: ma qui è il brano ad essere intrinsecamente minore, e le pregiudiziali di Kole vengono conseguentemente ridimensionate.

Infine, il Capo. Tracimante, istrionico, logorroico. “Il Teatro Degli Orrori” è suonatissimo, parlatissimo, cantatissimo. Pierpaolo sommerge le architetture strumentali, si inerpica sulle ferraglie, domina le sovraincisioni. Ci si stupisce di quanto sia pervasiva la sua presenza solo quando ci si accorge, a differenza del passato, di esserne stati travolti: di non essere riusciti a metabolizzare che brandelli di liriche, lampi sparsi in uno sconfinato mare magnum verbale. È un diluvio di parole, a scrosciare in “Lavorare Stanca” (non a caso il video è visual…): invettive parimenti pungenti e spuntate, quelle che piovono in “Disinteressati E Indifferenti”; valanghe bergsoniane autogeneranti, a rotolare lungo “Cazzotti E Suppliche” (così che la musica, le acide squadrature degli Shellac che incontrano gli armonici del periodo chitarristico dei Radiohead, diviene poco più di un pretesto, un trascurabile sottofondo). Non è mai stato particolarmente sobrio, il Nostro, ma l’essere troppo sopra le righe, in un contesto che non possiede il respiro e le ambizioni gigantesche de “Il Mondo Nuovo”, rischia di penalizzarlo ripetutamente. A fare eccezione sono, come al solito, due storie simboliche, soverchianti per densità di concetto e contenuto. Scure e dissonanti chitarre post-grunge infiorettano il sentito ritratto cronachistico, à la Kapuściński, di “Una Donna” (una bella dedica al volto affascinante ed espressivo della ragazza yazida mitra-munita immortalata in una foto di qualche tempo fa): “Slint”, per converso (che esibisce senza timori la filiazione diretta dalla “Washer” contenuta in “Spiderland”), convoglia il blob doom della strumentazione attraverso il resoconto, lancinante e teatrale, di uno schizofrenico sottoposto a TSO, risultando uno degli episodi migliori.

I soli pregi, ora. Che possono essere riassunti, sommariamente, in quella formidabile doppietta di metà scaletta. Saltano fuori da ogni lato, in “Benzodiazepina”, i coltelli lizardiani: chitarre sferraglianti (con alcune tentacolari aperture à la Bitch Magnet che in pochi, ahinoi, riconosceranno come tali), un basso metallico e scorticante, il furore interpretativo che serpeggia, indomabile, deflagrando al variare e al sovrapporsi delle sezioni strumentali (“Incubi / Incubi in continuazione / A volte ho paura di addormentarmi / Altre, invece, non vedo l’ora di dormire / Allucinazioni / Psicosi / Ansia / Ed infine dipendenza / L’uso di benzodiazepine può condurre allo sviluppo di dipendenza fisica”). Da un tema capitale all’altro: “Genova” è la migliore canzone che mi sia mai capitato di sentire sui fatti del G8 del 2001. Nessun fronzolo, nessuna retorica. La penna di Capovilla partorisce un’ecloga pastorale, un idillio amoroso nei confronti del capoluogo ligure, “dove soffia una brezza francese / profumo di storia / e di lotte operaie” e dove i manganelli dei “fascisti in divisa” calano con la violenza delle distorsioni noise, delle urla dei macellai della Bolzaneto e della Diaz frammiste ai testacoda industrial. La redenzione, lasciata intravedere, è allontanata però sullo sfondo. Ugualmente, nell’apparente levità di “Una Giornata Al Sole”, si rispecchia la quotidianità da incubo di un operaio, la cui gioia metafisica (“finalmente vivere!”) è compresa interamente nel sorriso dell’amata: la stessa amata, forse, che lo consola in coda a “Sentimenti Inconfessabili”, il frangente più esplicitamente tecnico de “Il Teatro Degli Orrori” (le strofe sono in 6/4) e sardonico strale contro il zuccheroso buonismo da funerale (“Ti vengono a trovare, tutti quanti / Ti vogliono vedere, per l’ultima volta / E piangono, piangono / Che neanche da morto ti lasciano in pace / E discorrono sulle tue virtù / Eri bello / Eri bravo / Eri generoso / Eri un cantautore / Nelle tue canzoni ci mettevi il cuore / Ci mettevi la poesia, la passione civile”). La quadra tra scorribande strumentali, acume lirico e varietà d’arrangiamento raggiunge qui un equilibrio perfetto e, da sola, basterebbe a giustificare ogni altra leggerezza.

A dispetto della lunghezza di quanto già scritto e della pazienza di chi leggerà, un paio di note supplementari sulla ricezione del disco. È ora, finalmente, che tutti ritrovino la propria onestà intellettuale. Negli anni successivi al grande successo (congiunto: critica e pubblico, è bene ricordarlo) di “A Sangue Freddo”, Il Teatro Degli Orrori è passato da essere la novità più eccitante dell’underground italiano al crocchio di politicanti populisti da rinnegare, vituperare, demonizzare. Non v’è dubbio che la band sia ormai molto lontana dai propri vertici creativi (lo dico: 2008, memorabile split in vinile con gli Zu) e che, almeno in parte, la sovraesposizione dell’ultimo lustro, nonché un ben poco conciliante atteggiamento mediatico (Capovilla, lo dice chi ha avuto modo di conoscerlo e intervistarlo nel corso degli anni, è una capa tosta), abbiano su di loro catalizzato critiche ed alimentato polemiche sterili, futili, inutili. È lapalissiano aggiungere, poi, che dalla sedicente scena indipendente sia meglio tenersi da subito quanto più lontani possibile – non si contano sulle dita di cento mani i gruppi e gli artisti sedotti dapprima, abbandonati e derisi in seguito, per la sola colpa di aver osato abbandonare la propria nicchia.

A conti fatti, il criticatissimo “Il Mondo Nuovo”, preso in sé e di per sé, è un prodotto dispersivo, confusionario e frammentario, ma non privo di momenti felici: “Allusioni”, prova solista di Mirai datata 2011, rimane una bella, per quanto estemporanea produzione; “Obtorto Collo” paga solamente la troppa ambizione. Tirando le somme, l’unico disco realmente brutto (e non a caso rimasto isolato) è il tardivo ritorno degli One Dimensional Man, con un “A Better Man” assai debole e raccogliticcio: il che non costituisce, in questa sede, materia d’esame. “Il Teatro Degli Orrori”, nel suo essere altra cosa dai primi passi, è un comeback degnissimo e, forse, inaspettato. Giusto trattarlo come tale.

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