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R Recensione

8/10

Casino Royale

CRX

Gli anni ’90 verranno sempre ricordati nella storia della musica come il decennio di dominazione trip-hop. Nel 1997, quando il movimento comincia a perdere spinta propulsiva e si inizia a parlare di downtempo, la corrente arriva anche in Italia. Nel Bel Paese questo genere perde le attrazioni filmiche e le atmosfere fumose di marca britannica (Tricky e Nightmares On Wax) e punta invece sulle algide fascinazioni della bassa battuta, integrata da corpose iniezioni di dub. I primi a cogliere il nuovo vento musicale sono i napoletani Almamegretta, che si prodigano in una commistione di canzone tradizionale ed elettronica rallentata; seguono la via del trip-hop anche Ustmamò, che si dedicano prevalentemente al lato melodico, e Stefano Ghittoni, che si fa attrarre da contaminazioni jungle. I Casino Royale con CRX si pongono come “il giusto mezzo”, ovvero: canzoni che sono pura crema elettronica ma con un cantato che cerca spesso melodie limpide su cui planare. CRX è perciò un album fondamentale per chiunque voglia capire gli sviluppi della scena elettronica italiana alle porte degli anni 2000.

I Casino Royale sono filiazione diretta Milano-Kingston, e nascono in una realtà musicale che si muove tra meticciato post-Clash, influenze rock e reggae. Già nel disco precedente, Sempre Più Vicini, la band, o meglio la crew, aveva sfogato gli ultimi istinti rock e si immergeva completamente nel drum ‘n’ bass, nell’ R ‘n’ B, nello ska. CRX porta la formula ad un livello superiore, con il suono sempre più inglobato nella bolla elettronica; il risultato è un terremoto musicale che giocava d’anticipo sulle tendenze musicali italiane del tempo, e infatti fu recepito pienamente solo dopo qualche anno.

L’album gode di un respiro internazionale anche grazie alla produzione di Tim Holmes (già con i Primal Scream), avvenuta mentre la band risiedeva a Londra; Holmes ha l’indubbio merito di indirizzare il suono verso rotondità ammalianti. Il resto lo fanno i Casino Royale. Del resto se parti con una voce che è oro colato come quella di Giuliano Palma (che però dopo il disco lascerà il gruppo per dedicarsi al progetto Bluebeaters) e hai una tale attitudine musicale, sei già a metà dell’opera. E infatti non si trova un brutto disco tra quelli realizzati dai milanesi, ma spesso si ha la sensazione che ci sia il freno a mano tirato, dovuta al fatto di adagiarsi troppo smesso su atmosfere morbide o semplici potenziamenti rock che non rendono giustizia alle capacità di questo collettivo. CRX è la spinta decisiva: i brani sono tutti concepiti come dei trip anestetici tra le pieghe di un suono che parte dal Bristol-sound, certo, ma spazia fino ad arrivare a orizzonti psichedelici e suadenti. La title-track in apertura è una manifestazione d’intenti: una base che scuote, elettronica deviata da abili scratch, consapevoli campionamenti sinfonici e un grande dualismo tra la voce piena di Palma e quella in perenne agitazione di Alioscia, una coppia di opposti che si ritrova spessissimo nel disco e che ottiene sempre ottimi risultati. Chi ha apprezzato i primi loro album ritroverà il suono agevole e rilassato nel dittico di The future e Ora solo io ora, ma completamente trasfigurato: nella musica si aprono grandi spazi vuoti, riempiti appena dall’eco del beat, e le voci disegnano paesaggi su uno sfondo crepuscolare. Basta confrontare Ogni singolo giorno dal disco precedente con questa The future: prima una musica quasi indolente e il caldo cantato di Alioscia, ora una battuta potente a sorreggere lo stesso Alioscia in declamazioni simil-schizofreniche. È l’ultimo lascito dei vecchi Royale: poi il disco preme sull’acceleratore.

Oltre è lo strappo: una base obliqua e dinamica, su cui la voce di Giuliano Palma naviga esperta, suoni sospesi nell’aria e nel mezzo una spettacolare scratch addensato. La musica si fa ancora più minimale nella successiva Là dov’è la fine, solo battute di base e note espanse; poi ovviamente ancora il dualismo delle due voce, come luce e oscurità sopra il beat. È in questo brano che si coglie con pienezza un altro grande passo avanti effettuato dalla formazione milanese: i testi, che in tutto il disco volano sulla musica in uno strano collage di temi mistici-religiosi, critica sociale ("Dio tu sempre sia lodato noi ti ringraziamo / per l’ennesima razione di quell’odio quotidiano"), tentativi di non-sense, transizioni onomatopeiche e inquietanti sottintesi. Le parole qui vanno di pari passo con la musica, sono totalmente complementari e si arricchiscono a vicenda; perché Là dov’è la fine senza queste parole probabilmente sarebbe noiosa, oppure il suo testo con un’altra musica sembrerebbe pretenzioso. In CRX invece tutto si incastra alla perfezione.

Il meglio del disco ce lo regala il terzetto di brani che preclude alla conclusione, mostrandoci tutto l’ampliamento sonoro compiuto dal gruppo. In picchiata è forse il pezzo più sorprendente dell’intero disco: un puro viaggio immaginifico pervaso di microelettronica sull’orlo della nevrosi, che viene fagocitata da aperture sonore puntuali ma allo stesso tempo spiazzanti, e una grande prova di Alioscia che scava con la voce sotto questo denso strato di suoni con un testo davvero criptico (parla di droga? Della forza che imprime la musica? Del superuomo teorizzato da Nietzsche che sprofonda nei vizi connaturati del suo essere?). Non fai in tempo a riprenderti che già vieni sbattuto nella psichedelica visionarietà di Homeboy, ancora Alioscia a prendere per le redini una smash-base vestita di richiami addirittura allo psych-folk e voci fuori campo. Ancora una volta il testo riserva sorprese: è un promemoria per Dio stesso, che lo incita a ricordarsi che l’uomo deve vivere in mondo come questo. Non resta altro da fare che abbandonarsi nell’immersione dub di Hi-fi con le sue stupefacenti ritmiche fuori dalla metrica, prima di concludere con una Là sopra qualcuno ti ama, che conferma una volta di più come la voce di Palma abbia bisogno anche solo di una semplice base per incantare.

Alle porte di un millennio nuovo, già gli stridenti presagi della mercificazione dell’essere avevano preso la società occidentale. Perfino la religione e la fede, originariamente via di salvezza, viene vissuta in maniera pragmatica e materiale: la figura di Dio viene ricondotta a quella di un datore di lavoro, che invece di buste paga dispensa miracoli e misericordia, e come un uomo, a volte si assenta, a volte sbaglia, in un rapporto uomo-Dio che diventa sempre più uomo-uomo, ultima deviazione umana per tentare di ricondurre la sfera divina alla nostra alienante modernità. Questo, in soldoni, è il messaggio del disco; che lo si condivida o no, se è sonorizzato con questa musica, si può solo apprezzarlo.

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 8 voti.
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loson 7/10
sarah 8/10
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Cas 8/10

C Commenti

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loson (ha votato 7 questo disco) alle 11:38 del 15 marzo 2010 ha scritto:

Un distillato delle sonorità che imperversavano nella Londra meticcia di metà '90s; il tutto filtrato da una sensibilità "italo" che, per una volta, non equivale al gretto provincialismo da canzonetta "usa e getta" o, peggio, a "indie-sermoni" esistenzialisti di bassa lega. Bel disco, ricordo che all'epoca lo ascoltavo spesso.

sarah (ha votato 8 questo disco) alle 15:33 del 15 marzo 2010 ha scritto:

Quoto in pieno Matteo, un caposaldo dell'Italia musicale anni 90, secondo solo a "Sanacore".

loson (ha votato 7 questo disco) alle 21:28 del 15 marzo 2010 ha scritto:

Diciamolo, Sarah, che siamo proprio figli degli anni '90! ;D

swansong (ha votato 7 questo disco) alle 12:53 del 16 marzo 2010 ha scritto:

Niente male. Abbastanza lontani dalle mie mire musicali, ma li ho sempre trovati molto interessanti. Epperò, sarà che a differenza vostra sono più figlio dei 70/80 )), ho sempre amato di più le sonorità funkeggianti del mitico "Dainamaita". Ottima rece!

DonJunio (ha votato 8 questo disco) alle 13:22 del 17 marzo 2010 ha scritto:

Anche io sono figlio degli anni 90 eheh. Uno dei migliori esempi nostrani di ricerca applicata al suono in quegli anni.

TexasGin_82 (ha votato 8 questo disco) alle 17:48 del primo aprile 2010 ha scritto:

Povero Giuliano

Grandiosi per sempre. Compreso il povero Giuliano Palma, che si è messo a fare "wonderful life" e quelle cose là, un po' come Neffa, che si è messo a fare "io e le mia signorina" e quelle cose lì. Ma resta un grande per quello che ha fatto, prima.

PehTer (ha votato 8,5 questo disco) alle 14:34 del 12 gennaio 2019 ha scritto:

Gran bel disco, "diverso" rispetto allo scenario italiano di allora. È davvero un peccato che non abbia portato da nessuna parte.

zagor (ha votato 7,5 questo disco) alle 15:13 del 12 gennaio 2019 ha scritto:

non porto' da nessuna parte perché fu il culmine di una stagione (quella dell'indie-italico anni 90) che tocco' proprio l'apice in quell'anno, anche con altri dischi (penso a "hai paura del buio?"), da li' in poi inevitabilmente il riflusso. e nel loro caso, anche la disgregazione, dopo un tris d'assi come questo, sempre piu' vicini e dainaimaita. questo a oltre 20 anni di distanza resta uno dei migliori lasciti di quell'epoca, suona ancora freschissimo.