V Video

R Recensione

7,5/10

Arctic Monkeys

Tranquility Base Hotel & Casino

Tutti, a ragione, si aspettavano un “AM” parte due; ma ecco “Tranquility Base Hotel & Casino”, disco di architetture lounge rock: posato, glamour, un po’ sinistro, scritto inizialmente da Alex Turner su una Steinway Vertegrand nella propria stanza a Hollywood e prodotto, in ultimo, insieme a James Ford. Un lavoro completamente orientato all’escapismo, quale rigetto delle logiche alienanti della contemporaneità, di conseguenza isolato, versato in pose à la Bowie e a là Lennon, e fuori dal tempo.

Chiaro, così, che l’aspettativa per un disco insieme muscolare, infarcito di ballate e pop song dai modi R&B sia stata ampiamente delusa; ma c’è, ugualmente, molto di cui godere in questa fuga dal reale. Uno Statio Tranquillitatis musicale su cui Turner canta come appartato (e sprofondato come un personaggio psicotico kubrickiano) al tavolo di un locale losangelino anni 70, sorseggiando Martini e impegnato a ricapitolare iconograficamente una (sua) realtà da retro fantascienza - a trama socio-cinematografica. 

Autocoscienza (anche sull’essere celebrità: <<I’m a big name in a deep space / ask your mates>>), definizione di rapporti (<<I want to stay with you my love / in the way that some science fiction does>>) e critica sociale (<<breaking news /they take the truth/ and making fluid>>) si riversano in una cascata d’immagini: gentrificazione lunare, Martini Police, Jesus in the day spa e chat with God in video call. 

Gli altri componenti degli Arctic Monkeys hanno dovuto, giocoforza, curvarsi al mood di Turner e mettersi al servizio di questa idea (rodata, i più attenti lo avevano intuito, durante l’ultimo episodio del side project Last Shadow Puppets, “Everything You’ve Come to Expect”): le ritmiche, i riff sfogati delle chitarre, le linee di basso risultano, in “TBH&C”, ampiamente sedati e rimodellati rispetto al passato. 

Idea guidata dal piano, si diceva, e non più dalla chitarra, il quale ha trasformato il processo creativo del leader, conducendolo verso scenari inediti e cantautoriali. Sul limite, a volte, jazzistico (smooth ed elementare: “Star Treatment”), o dentro un pop spaziale e morbidamente vorticoso (“American Sports”, “Science Fiction”), altre volte intimo (e nostalgico: <<Still got pictures of friends on the wall / I suppose we aren't really friends anymore >> in “Ultracheese”); il tutto, tenuto assieme da theme ricorsivi (il discorso intrapsichico e politico, di vuoti e acidità della chitarra, “Golden Trucks”) e contrappuntati. La chitarra si limita, questa volta, a brevi sfoghi (nel bridge di “One Point Perspective”, nel groove psych e fisico di “Four Out Of Five”, nel solo beatlesiano di “She Looks Like Fun”, di sghimbescio in “Science Fiction”), pur essendoci in ogni episodio. 

Voleva semplicemente essere uno degli Strokes quando tutto è partito (2002), ma ora Turner è leader maturo e consapevole, capace di reinventare ancora una volta, e in modo ancor più radicale, l’estetica degli Arctic Monkeys, accompagnando l’ascoltatore in un volo di certo non facile come cantano, ma estremamente affascinante. 

Una reale boccata d’ossigeno, “Tranquility Base Hotel & Casino”, nella frenesia degenerata di questo fine anni 10.  

V Voti

Voto degli utenti: 6,4/10 in media su 5 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
Cas 7,5/10
Lepo 7,5/10

C Commenti

Ci sono 7 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

zagor alle 14:41 del 6 gennaio 2019 ha scritto:

recensione perfetta, bravo Mauro. io pero' rimpiango AM lol.

FrancescoB alle 15:07 del 6 gennaio 2019 ha scritto:

Mauro inappuntabile come al solito, recensione davvero interessante e scritta molto bene. Confesso una certo idiosincrasia per gli Arctic Monkeys, forse perché ero e resto un fedelissimo della new wave originaria e ho sempre avuto una certa diffidenza nei confronti del revival degli anni '2000, anche e soprattutto nel corso della sua parabola ascendente, con la poderosa eccezione dei National (per cui stravedo, e mi viene difficile immaginare che si possa sminuirli). Questo disco pertanto rappresenta per me una piacevole sorpresa, e nella sostanza quoto tutte le considerazioni di Mauro, specie sull'escapismo.

Cas (ha votato 7,5 questo disco) alle 18:40 del 6 gennaio 2019 ha scritto:

godibilissimo! grande mauro

Lepo (ha votato 7,5 questo disco) alle 19:10 del 6 gennaio 2019 ha scritto:

Molto bella la recensione, sintetica ma esaustiva.

Io sono dell’idea che questo sia stato un disco pensato per uscire a nome Alex Turner e basta, ma che per mancanza d’altro materiale disponibile sia stato pubblicato come nuovo capitolo della saga Arctic Monkeys. Probabilmente la loro etichetta temeva che prolungare l’assenza oltre i cinque anni sarebbe stato eccessivo, e non mi sento di contraddire un simile ragionamento di business. Il problema, se vogliamo trovarcelo, è che questo disco è completamente privo di singoli, e commercialmente, almeno negli USA, li ha rovinati. È un peccato, con AM si erano consacrati come l’unica vera rock band mainstream rilevante, adesso sarà molto difficile riconquistare il terreno perduto (però sarei incuriosito da una svolta commercialona con tanto di featuring con rapper lol).

L’album comunque è a dir poco obliquo, si disvela solo dopo numerosi ascolti, è molto ma molto più complesso e stratificato di ogni cosa che abbiano mai fatto fino ad ora, ed è incredibile come un disco con così tanti temi e sottotrame diverse si imponga in fin dei conti come un album dominato dalla voce (troviamo un Turner ai suoi apici vocali). I testi come al solito sono bellissimi, e le undici tracce ci lasciano almeno un capolavoro assoluto: Star Treatment, che per me entra di diritto tra i primi cinque pezzi della band.

hiperwlt, autore, alle 19:43 del 6 gennaio 2019 ha scritto:

Sì Lepo, anche per me è possibile che all'inizio il lavoro dovesse essere solo di Turner; gli altri lavorandoci sopra, e forse in accordo con l'etichetta, hanno accettato un ruolo, diciamo così, gregario e di firmarlo a nome AM. Nel breve movie del disco, ad esempio, si vede Helders eseguire alcune parti ritmiche seguendo alla lettera le idee di Turner e di Ford. In un'intervista a RS Cook si è detto sconvolto dopo aver ascoltato le prime demo ed Helders, che è subentrato solo in seguito sulle parti ritmiche insieme al bassista, ha detto di aver fatto un passo indietro nei confronti di Turner e della sua idea. Giustissima la tua considerazione sulla stratificazione degli arrangiamenti e, d'altra parte, sul ruolo dominante delle parti vocali (sembra abbia lavorato davvero tanto, Turner, sulla resa espressiva e scenica del cantato).

Grazie a tutti del passaggio

vixpatafix alle 16:33 del 20 aprile 2020 ha scritto:

Ottima recensione, gran disco

hiperwlt, autore, alle 17:00 del 21 aprile 2020 ha scritto:

Grazie! e grazie di averlo ripescato.

Un disco a suo modo visionario, nel suo escapismo retrò di contrasto ad una contemporaneità sempre più accelerata. E, specie in questo periodo, assume un senso ancora più significativo.